L’anno scorso, circa un mese dopo il 7 ottobre, sono tornato in Israele per lavoro dopo alcuni anni di lontananza, e dopo averlo frequentato e provato a raccontare assiduamente tra il 2004 e il 2010. Ci ero tornato varie volte anche dopo, certo, ma da “turista esperto”, da viaggiatore che da del tu ai vicoli di Gerusalemme, alle spiagge di Tel Aviv, alle colonie in Cisgiordania e al senso di soffocamento delle città palestinesi. Ma avevo deciso, pensato, che il mio tempo di giornalista che scrive di quei posti fosse chiuso con la mia gioventù, e con la fine della speranza che quel racconto potesse cambiare di segno, in meglio, seguendo le rotte di quella realtà. Il massacro e il rapimento di massa di civili israeliani del 7 ottobre e i massacri, drammaticamente ingiusti quanto prevedibili, che sono seguiti a Gaza per mano dell’esercito e del governo israeliano, mi hanno spinto, come fosse un dovere, a tornare laggiù, in quegli inferi, con un taccuino in mano.
Non sono tornato per raccontare una guerra alla quale non era dato accesso, ma per provare a guardare da vicino la società israeliana, provando a sondarne le pieghe, il ventre arrabbiato e disposto a tutto: soprattutto a chiamare con il loro nome, senza sensi di colpa, sentimenti e desideri di sangue e vendetta indicibili.
In un paese irriconoscibile anche a chi era convinto di averlo conosciuto, in un paese che mi sembrava di visitare la prima volta pur essendo la ventesima, mi è stata guida e conforto, alla fine del 2023, la compagnia di Arturo Cohen.
Trent’anni, ebreo milanese trapiantato da solo attorno ai vent’anni in Israele. È diventato cittadino israeliano anche per potersi spostare più liberamente tra i suoi due paesi, tra le sue due famiglie, quando viaggiare sulla rotta Milano-Gerusalemme era diventato particolarmente difficile. “Vivevo qui e lavoravo qui da dieci anni, ormai, ma in piena pandemia tornare a casa e poi tornare qui senza cittadinanza sarebbe stato complicatissimo”. È un militante politico di quella sinistra che, in Israele, non esiste quasi più, come i partiti che la rappresentavano. Favorevoli al processo di pace, radicalmente contrari a ogni colonizzazione dei territori occupati, antropologicamente sempre più lontani dall’anima e dal corpo dell’Israele di oggi. Ancora di più a partire da quel 7 ottobre che ha sottratto a lui e agli altri suoi amici Hersh Goldberg-Polin, come lui attivista, come lui tifoso del Hapoel Jerusalem, storica squadra della sinistra operaia, come lui frequentatore del Sira, luogo di ritrovo di quell’Israele critico e libero, un Israele sempre più piccolo. Attorno e dentro alle proteste contro il governo e per la liberazione degli ostaggi, in realtà, si è articolato uno spazio di dialettica politica non trascurabile.
Cosa rimarrà di tutto questo? Cosa rimane, soprattutto, in termini di senso critico e di valore del dissenso, nella società israeliana di oggi? Un anno dopo torno da Arturo, e lo videochiamo proprio mentre è al Sira Pub. Per parlare di dov’eravamo rimasti. Ma anche e soprattutto di dove non sembriamo in grado di andare. Ci sentiamo nel giorno dell’uccisione di Hasan Nasrallah: per Israele un giorno di festa.
«Le sigle che hanno animato quelle piazze sono tante, alcune risalenti, altre nate dopo il 7 Ottobre del 2023: Standing Together (in ebraico: Omdim Beyahad), movimento di ebrei e palestinesi insieme contro l’occupazione; Il Forum delle famiglie degli Ostaggi, che si è diviso in fretta in due correnti – una apolitica, che chiede solo il rilascio degli ostaggi e quella più politica, contraria alla guerra contro Gaza, che ha trovato in Einat Zangauker, madre di un giovane rapito, Matan, il suo simbolo forse più visibile, che viene da Ofakim e da una realtà sociale storicamente conservatrice e per questo è particolarmente temuta dall’establishment di Netanyahu. Poi ci sono quelli che in piazza ci andavano già prima, i movimenti contro la riforma costituzionale, Koah Kaplan, ad esempio, o i “fratelli e le sorelle in armi” (in ebraico: Achim Laneshek), alti graduati dell’esercito che però si rifiutavano di servire ancora un esercito che – dicevano – a seguito della riforma sarebbe stato al servizio di un paese meno sempre più lontano dalla democrazia.
Per il primo ministro d’Israele, questi movimenti sono i veri colpevoli del 7 Ottobre: perché hanno contribuito a dimenticare che il vero nemico è fuori, e non dentro a Israele. Infine, per essere molto sintetici, ci sono e c’erano i movimenti che si battono per una maggior giustizia sociale, e che ricordano a Israele e al mondo che la prima e più trasversale diseguaglianza è quella tra poveri e ricchi. Culture of Solidarity (Tarbut shel solidariut, in ebraico), nato a Tel Aviv-Jaffa durante la pandemia, e che ha l’obiettivo del mutuo aiuto ai più poveri da ambo i lati, e che in questi mesi si è caratterizzato per essere in prima linea oltre che nelle proteste, anche negli aiuti umanitari a Gaza».
Per Netanyahu, un giorno di resurrezione. Il suo è lo sguardo di una piccolissima minoranza di attivisti, una minoranza sempre più piccola e sempre più sola.
«Libano ed Hezbollah sono considerati trasversalmente dalla società israeliana come una minaccia solida, reale, che continua a buttare bombe sul nord, armati di tutto punto dall’Iran, provocando lo sfollamento di 60 mila israeliani che hanno dovuto lasciare le loro case. Sono un nemico sentito come tale da tutta la società. Quindi, quando si parla di quel fronte lo spazio per il dissenso è ulteriormente ridotto».
Ulteriormente rispetto a quello, già non ampio, che riguarda la questione palestinese e la “gestione di di Gaza” dopo il 7 ottobre.
«Esatto. In fondo, se guardiamo con onestà a quest’anno che si conclude, nessun movimento israeliano è stato capace di portare avanti, e di far emergere nel dibattito una vera linea alternativa. Quando Hochstein arrivava dagli Stati Uniti a fare questo giro qua, di parlare da un lato e parlare dall’altro, non ci credeva nessuno, non era mai visto veramente come una linea politica su cui calcare. Tanto che – tra le comprensibili proteste e critiche di tutto il mondo pacifista – l’unica linea comune di tenuta che abbiamo potuto trovare è quella per la liberazione degli ostaggi. Il mondo giustamente accusa Israele, anche l’Israele di sinistra, di occuparsi solo degli ostaggi. Ma è l’unico elemento che unisce tutti i critici di Netanyahu. Non siamo riusciti a dire qualcosa in più su Gaza, e sul massacro di decine di migliaia di innocenti, perché nel merito della risposta le divisioni sono profonde e radicali».
In effetti, l’obiezione classica di chi manifesta contro il massacro di Gaza è che voi, in Israele, protestavate solo per i “vostri” ostaggi.
«La cosa che è importante sapere e capire è che, dentro a questi movimenti israeliani, c’è una parte sicuramente minoritaria, che siamo noi, che è consapevole di questa contraddizione, ma che è anche consapevole di vivere in questo paese. Nel quale, purtroppo. devi veramente sporcarti le mani con la realpolitik per portare in piazza un milione di israeliani contro il governo, per fare l’accordo per gli ostaggi e per spingere per il cesato in fuoco, puntando tutto o quasi sul motto israeliano che recita: non si abbandonano i nostri fratelli».
Figuriamoci rispetto alla questione-Libano, cioè rispetto a Hezbollah, cioè, rispetto all’Iran.
«Esatto. Di fronte alle comprensibili paure degli israeliani che vivono a Nord e che sono costretti a sfollare, ogni obiezione che si rifaccia al diritto internazionale e all’attuazione della risoluzione ONU 1701, finisce con lo sgretolarsi. Gli Hezbollah erano più armati di quando, vent’anni fa, la risoluzione fu approvata, e l’Iran che li arma è più motivato che mai a dichiarare – almeno a parole – la guerra ad Israele».
In questo quadro geopolitico e psicologico si colloca l’azione d’Israele: prima i cercapersone esplosi, poi l’azzeramento dei vertici di Hezbollah, infine l’attacco di terra.
«La verità è che, in Israele, nessuno si aspettava più un tale livello di preparazione militare e di intelligence. Dopo la ultradecennale retorica del “miglior esercito del mondo”, la mazzata del 7 ottobre sembrava aver spento definitivamente quel racconto. E invece, Israele è uscito dal panico che lo portava a credere che la prima bomba che arrivava dal fronte del Nord fosse il preludio alla guerra e distruzione, e in 24 ore è tornato all’orgoglio bellicista di chi ha visto radere al suolo i vertici di Hezbollah. Dalla depressione apocalittica all’euforia, in pochi giorni, con la gente che offre pasticcini in giro per le città e le spiagge di Tel Aviv piene di gente esultante. Non a caso, tutto questo è avvenuto appena prima dell’anniversario del 7 Ottobre».
Come inciderà negli umori complessivi, fuori e dentro a Israele, questa nuova fase?
«Sicuramente è presto per fare un bilancio compiuto, anche perchè non sappiamo cosa succederà di qui in poi. Il mio feed, Twitter, Facebook, arabo-musulmano, per il 50% festeggia. I sunniti sono felici, molti libanesi sono felici, soprattutto i cristiani e i sunniti».
Anche le donne iraniane probabilmente, quelle di Teheran, sono contente.
«E ha senso. Quello che penso io è che, al livello di società israeliana, al livello di sviluppo interno, rischiamo di fare tanti passi indietro. Non che ce ne fosse molto bisogno, visto che di passi indietro ne abbiamo già fatti tanti».
Anche perché questa vittoria militare cancella anche o comunque mette molto a tacere le voci arrabbiate per la gestione degli ostaggi, o critiche su una guerra indiscriminata a Gaza?
«Di fatto, quella di Netanyahu diventa “l’’unica linea possibile”. Meglio 100 ostaggi finalmente a casa, ma Hezbollah ancora con 200.000 missili terra a terra e le truppe pronte al confine, o 100 ostaggi ancora sottoterra, ma Hezbollah rasa al suolo? Questa è la domanda che di fatto lui porrà, con successo, dal suo punto di vista, alla società israeliana, mentre è già ripartita la retorica per la quale si proclama papà di tutti»
_____________