I frammenti della Storia che non passa: trent’anni dal genocidio di Srebrenica

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Articolo tratto dal N. 40 di I complici di Srebrenica Immagine copertina della newsletter

Ricostruire dal caos

“Per il prossimo 11 luglio sono state confermate soltanto cinque salme”, scrive un giornale bosniaco in occasione della sepoltura collettiva, che si svolge al Memoriale di Potočari, dei resti delle persone massacrate tra l’11 e il 18 luglio del 1995 e ritrovati dagli antropologi forensi a distanza di decenni. Non è strano, siamo materiale biodegradabile, sono passati esattamente trent’anni e il numero dei ritrovamenti nel tempo è sempre più esiguo.

L’articolo continua spiegando che sono stati esumati i resti di altri 47 corpi, tuttavia i famigliari non hanno ancora acconsentito alla sepoltura, poiché i ritrovamenti consistono in piccoli frammenti, schegge di ossa, quindi le famiglie preferiscono aspettare, hanno atteso così a lungo per poter ricostituire il corpo e non  possono arrendersi adesso, non possono seppellire quel misero mucchietto che non ha alcuna somiglianza con il marito, il figlio, il padre che, a distanza di tutti questi anni, nemmeno loro sanno più come ricordare. È così umano questo desiderio di interezza, ricostruire i pezzi, ridare un ordine al caos che ha devastato tutto. Eppure, la prima cosa che ci ha insegnato la guerra quando ha stravolto le nostre vite è stata proprio questa: mai più saremmo stati interi.

Memoriale di Srebrenica

Il massacro di Srebrenica

In quei giorni di luglio di tre decenni fa noi non sapevamo ancora che cosa stava davvero accadendo; chiunque non fosse a Srebrenica ma si fosse messo in salvo prima, attendeva di veder ricomparire i propri cari dal buio e dal silenzio che erano seguiti alle immagini dell’arrivo di Ratko Mladić e del suo esercito a Srebrenica. Le sue dichiarazioni di vittoria sull’Impero ottomano, un tantino fuori tempo, e le sue rassicurazioni alla massa umana radunatasi davanti alla base Onu. A nessuno sarebbe accaduto nulla di male, ripeteva mentre accarezzava teste di bambini in braccio a genitori dietro il filo spinato, tutti sfigurati dalla carestia patita nei tre anni di assedio.

Nei giorni successivi, quando le telecamere si sono spente, l’interesse fugace del mondo per le sorti di Srebrenica esaurito e circa quindici mila persone sono state inghiottite nel nulla, noi continuavamo a dirci che non potevano averli uccisi. Insomma, tutti avevano visto quella marea di gente fuori dalla base ONU, il mondo, l’Europa non l’avrebbero permesso. All’epoca coltivavamo speranze di disarmante ingenuità.

Ratko Mladić

Il dopo è storia nota…

La deportazione, l’esecuzione e l’occultamento di ottomilasettecentotrentadue esseri umani, numero non definitivo secondo il Memoriale di Potočari. Il dopo è la storia di un tradimento e dell’abbandono totale di un’intera popolazione da parte dei caschi blu dell’ONU lì presenti e, in generale, da parte della comunità internazionale. Il dopo è la storia di una ingiustizia protratta nel tempo poiché nella spartizione su base etnica della Bosnia ed Erzegovina, Srebrenica è stata assegnata alla Republika Srpska, rendendo così legittime le pratiche genocidarie per la conquista di un territorio.

Non è strano allora che i tribunali si siano occupati principalmente di gettare un pò di fumo negli occhi di chi chiedeva giustizia: arresti tardivi, Ratko Mladić nel 2016 e Radovan Karadžić nel 2019, condanne riparatorie e soprattutto rare ammissioni di colpevolezza. È del novembre scorso il caso di una lettera dell’ generale serbo Radislav Krstić, il primo imputato ad esser condannato in via definitiva per il genocidio di Srebrenica, in cui riconosce la sua colpa. L’Associazione delle Madri di Srebrenica e Žepa chiede quindi a Krstić di svelare la posizione delle rimanenti fosse comuni e di quelle in cui i cadaveri furono successivamente riallocati, oltre a fornire i nomi di coloro che avevano partecipato alle esecuzioni.

Caschi blu dell’ONU che assisto dei civili in difficoltà

Un genocidio irrisolto 

Tuttavia, episodi come questo di Krstić sono di eccezionale rarità. Al contrario, tutt’oggi il governo della Republika Srpska e in particolare il Presidente Milorad Dodik negano in maniera assoluta che a Srebrenica sia stato perpetuato un genocidio, sostengono sia tutta una messinscena contro i serbi. Nulla di sorprendente considerata la politica nazionalista di Dodik, il fatto è che questo tiene ancora la Bosnia ed Erzegovina sull’orlo del baratro, sempre sul punto di sprofondare nel caos. Allo stesso modo il governo bosniaco nazionalista utilizza Srebrenica come il fiore all’occhiello della propria propaganda, lo spauracchio identitario con cui continuare a vincere le elezioni. Trent’anni dopo siamo ancora fermi a questo: nomi dei responsabili da svelare, fosse comuni da individuare, corpi da ritrovare, una Storia condivisa ben lungi dall’essere immaginata, figuriamoci scritta.

Come si può pensare che un passato irrisolto di ingiustizie e soprusi porti a un presente e un futuro radiosi? Potrebbe essere una domanda seria e doverosa da farsi a distanza di tempo. Una domanda che forse sarebbe il caso di assumere come un chiaro monito e una lente di ingrandimento per guardare al nostro presente, alle ingiustizie, alle sopraffazioni, alle pratiche genocidarie che stiamo lasciando accadere, salvo pentircene inutilmente con il senno di poi.

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