La caduta di Srebrenica
«Nell’attaccare l’enclave di Srebrenica Mladić in un primo momento intendeva solo saggiare il terreno; quando però si rese conto che l’avanzata delle sue truppe non sarebbe stata ostacolata dall’UNPROFOR, decise di conquistarla»1.
La presa della città bosniaca di Srebrenica, ad opera delle truppe serbe, delle tigri di Arkan e di alcuni volontari greci, ebbe inizio all’alba del 6 luglio 1995, quando ormai la guerra imperversava da oltre tre anni. Nonostante l’area fosse sotto la protezione di un contingente olandese delle Nazioni Unite e nonostante le diverse e vane richieste di intervento degli aerei NATO, le milizie guidate da Ratko Mladić avanzarono, riuscendo a sottrarre posizioni ai caschi blu.
Mancanza di aiuti da parte della comunità internazionale, mancanza di coordinamento tra gli olandesi a Srebrenica e i comandi di Sarajevo e Zagabria, e con lo stesso Stato maggiore dell’esercito bosniaco, portarono Mladić a considerarsi inattaccabile e la popolazione locale a sentirsi abbandonata a sé stessa.
Il caos regnò…
L’11 luglio i caschi blu ripararono nel vicino quartier generale di Potočari, seguiti da oltre 20.000 civili; di questi solo un quinto riuscì ad entrare nel villaggio, altri rimasero nelle vicinanze, altri ancora furono schiacciati dalle stesse ruote dei blindati olandesi nel tentativo disperato di salvarsi.
Intanto, a Srebrenica, dove era stato diramato l’ordine di Sarajevo di non resistere, uomini, donne, bambini e anziani si misero in marcia vero Tuzla. La colonna umana venne attaccata dalle truppe serbe all’alba del 12 luglio e si divise; una parte continuò la marcia, l’altra cadde vittima di diverse imboscate.
A nulla valse l’appello di Haris Silajdžić circa il pericolo di un’imminente strage.
Quanto accadde nelle giornate seguenti è storia drammaticamente nota. Rastrellamenti a Potočari, sevizie e torture a Bratunac, festeggiamenti dei cetnici al cospetto delle mattanze, uccisioni di massa che andarono avanti per giorni. Solo tra il 16 e il 17 luglio cominciarono a circolare la prime testimonianze dirette di quanto stava avvenendo; giorni prima, invece, ne erano stati messi al corrente i vertici delle Nazioni Unite. Oltre 8.000 bosniaci musulmani furono uccisi nel massacro.
Tra giustizia e silenzi
A trent’anni esatti da quelle giornate mai sufficientemente vivide nella memoria del democratico mondo occidentale, appaiono sempre più chiare non solo le condanne verso i responsabili materiali del massacro di Srebrenica (ventuno condanne, tra cui quelle di Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Radislav Krstić), ma anche le negligenze e le complicità di coloro che, presenti sul territorio, si rifiutarono di guardare.
Se internamente alla penisola balcanica, il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) presso le Nazioni Unite ha stabilito che quanto avvenuto tra l’11 e il 19 luglio 1995 a Srebrenica rappresenta un genocidio compiuto da singole persone, deresponsabilizzando in tale maniera la Serbia in quanto non direttamente coinvolta (la stessa Corte internazionale di giustizia ha assolto le autorità jugoslave in quanto non a conoscenza dello specifico intento che caratterizza il genocidio), a livello internazionale permangono altrettanti e maggiori dubbi.
Abbandonati dalla storia
Nascono, difatti, spontanee quelle domande sui perché le tre compagnie olandesi (Duchtbat I, II, III) decisero di non sparare neppure un colpo per difendere i bosgnacchi, non diedero il proprio assenso agli interventi aerei, fornirono collaborazione ai serbi nell’individuare i feriti da arrestare e rimasero in silenzio di fronte a ciò che avevano visto; sul perché l’ONU e la NATO, sempre pronta a scendere in campo, decisero di non intervenire; sul perché non venne immediatamente denunciato quanto stava avvenendo.
«A queste denunce seguirono presto i sospetti che la comunità internazionale e il governo di Sarajevo avessero abbandonato l’enclave al suo destino»2, per poi procedere con una maggiormente semplice spartizione del territorio bosniaco-erzegovese, come in precedenza auspicato da Karadžić.
Tragedia e indifferenza
Ancora perplessità sulla condotta di Londra e Parigi, accusate di aver dato nei mesi precedenti l’assenso all’operazione serba e poi di aver coperto le responsabilità di Belgrado.
Insomma, moltissime zone d’ombra per un evento tragico —al quale in molti assistettero o del quale in tanti furono presto informati— che dopo tanti anni sembrerebbe potesse essere evitato, o quanto meno ridotto nelle sue terribili dimensioni, e che nasconde interessi noncuranti della vita di oltre 8.000 persone.
Ma del resto, allo stato attuale, appare cosa comune e priva di conseguenza l’assistere in diretta alla morte di persone la cui colpa è solo quella di essere nata dalla parte considerata sbagliata della storia.
1 J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave 1991-1999, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014, p. 472.
2 Ivi, p. 478.