La rivolta degli studenti
Le proteste che da otto mesi coinvolgono studenti, studentesse e docenti delle università e delle scuole superiori serbe in difesa della responsabilità istituzionale, della trasparenza e dello stato di diritto, si sono trasformate in un più ampio movimento sociale, con un numero crescente di manifestazioni in tutto il Paese. Innescato dal crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad che ha causato la morte di 16 persone e il grave ferimento di un’altra, il movimento guidato dagli studenti, pur privo di una leadership centralizzata, rappresenta la manifestazione più recente, intensa e duratura del malcontento verso le politiche sociali, ecologiche ed economiche in Serbia, distinguendosi inoltre per non adottare la tradizionale retorica dei movimenti identitari o del lavoro.
Nonostante i notevoli risultati ottenuti, e il fatto che i manifestanti abbiano sospeso le loro vite e affrontino quotidianamente arresti e detenzioni illegali — intensificatisi dopo le grandi proteste a Belgrado del 28 giugno — le mobilitazioni si scontrano con un’inerzia sociale diffusa, segnata da un’eccessiva delega alla leadership studentesca e da una resistenza a un coinvolgimento più profondo. Una dinamica che può dipendere da diversi fattori, tra cui l’assenza di un programma politico del movimento e il suo esplicito distacco da qualsiasi attore politico, istituzionale o partitico. Un’ulteriore critica riguarda le dissonanze politiche interne al movimento stesso, che rimangono in gran parte invisibili all’opinione pubblica, perché discusse principalmente in sessioni plenarie a porte chiuse, ma che emergono saltuariamente nei comunicati dei collettivi studenteschi.
È evidente che le rivendicazioni studentesche siano solo superficialmente apolitiche, e che mirino in realtà a denunciare la corruzione del regime a tutti i livelli. Questa soglia politica è stata chiaramente superata con l’annuncio, il 5 maggio, del sostegno degli studenti alle elezioni anticipate: una sfida aperta a un regime che sembra avere i giorni contati. Considerata la posta in gioco per i membri dell’attuale governo in caso di sconfitta elettorale – tra cui procedimenti per gravi violazioni delle leggi, della Costituzione e per una diffusa pratica di corruzione – il rifiuto del presidente Vučić di indire nuove elezioni appare come l’ultimo tentativo di rinviare l’inevitabile.

La percezione ideologica delle proteste
Resta, però, una questione centrale il silenzio quasi assoluto dell’Unione europea, nonostante le diverse iniziative simboliche attraverso le quali gli studenti speravano di ottenere visibilità e supporto da parte degli europarlamentari, come la pedalata fino a Strasburgo o l’ultramaratona fino a Bruxelles. A parte qualche dichiarazione di circostanza di pochi deputati, queste azioni hanno ricevuto solo timide attestazioni di simpatia. Una possibile spiegazione è la presunta preferenza dell’UE per una “stabilocrazia” che garantisca l’equilibrio nei Balcani. Un punto più convincente, tuttavia, è la natura transazionale dei rapporti tra Serbia e UE, dove quest’ultima beneficia di concessioni e vantaggi economici garantiti personalmente dal presidente Vučić – condizioni che difficilmente sarebbero accettabili in un contesto più democratico.
Per quanto riguarda le percezioni ideologiche e le (ri)letture distorte delle proteste, le personalità del regime hanno fatto ricorso a un miscuglio di termini vaghi o etichette apertamente denigratorie per colpire quegli individui e quei gruppi che stanno mettendo in discussione le loro posizioni di potere: “rivoluzionari colorati”, ma anche “mercenari stranieri”, senza fare preciso riferimento ai sottintesi finanziatori, lasciando volutamente spazio a interpretazioni ambigue da parte dei propri sostenitori più fedeli, che non esitano ad attribuire la responsabilità di questa presunta cospirazione a un indefinito “Occidente” o all’Unione europea.
Si è persino arrivati a accostare la simbologia della mano insanguinata usata dai manifestanti ad Hamas, verosimilmente per via delle relazioni controverse – e confermate – tra Israele e l’industria militare serba, recentemente sconfessate dal presidente Vučić.

Propaganda e disinformazione del governo Vučić
È significativo, inoltre, il tentativo insistente da parte del regime di dipingere le proteste studentesche come guidate tanto da un’ideologia anarchica quanto da una matrice di sinistra radicale o comunista. Con visibile disprezzo e in totale assenza di prove, numerosi esponenti del governo hanno dichiarato pubblicamente che le proteste sarebbero guidate da “plenari bolscevichi”, “terroristi anarchici” responsabili di “crimini indicibili” e intenti a pianificare “azioni terroristiche” di proporzioni simili a quelle di Al-Qaeda. Dopo l’efficace azione di blocco contro l’emittente televisiva pubblica di aprile, alcune figure del regime hanno iniziato a utilizzare contro gli studenti anche l’iconografia e la retorica del nazismo.
Questa apparente incoerenza nel cambiare continuamente bersaglio e linguaggio d’odio nei confronti degli oppositori politici rivela come il regime di Vučić abbia interiorizzato il disprezzo neoliberale per qualsiasi forma di “totalitarismo”, trattandoli tutti allo stesso modo. Ma alla stessa maniera, accusando estremisti di sinistra immaginari e orientamenti liberali e filo-occidentali di voler minare la sovranità del Paese, il regime tenta di occupare l’intero spazio ideologico con l’idea che la Serbia si trova in una “grave emergenza” e presentandosi come l’unica alternativa patriottica a un presunto “asservimento straniero”. La repressione statale è peggiorata in modo significativo dal 28 giugno, eppure non abbiamo ancora sentito una sola parola di condanna per la violazione di tutte le leggi, della Costituzione o dei diritti umani fondamentali che il regime di Vučić sta portando avanti, pur dichiarando di voler entrare nell’UE.