Nel film Premio Oscar La zona d’interesse di Jonathan Glazer, la quotidianità distesa della famiglia di un comandante nazista scorre tra bagni in piscina, giardinaggio e faccende domestiche. Ai bordi delle loro esistenze si consuma, rumorosa e percepibile, la mostruosità di Auschwitz.
Non si può non cogliere un cupo riferimento all’oggi. Come se, invece di «prepararci alla coesistenza con l’imprevedibile e il non-osservabile» (lo suggerisce il sociologo e filosofo Piero Dominici), ci impegnassimo a ignorare l’orrore per rimuovere certe cose dal nostro piccolo mondo.
Quello che invece dovremmo abituarci a fare è prendere confidenza con il caos, guardare il presente friabile e incerto che attraversiamo e renderci conto che i conflitti, la violenza e le molte crisi che si accavallano non sono “altro da noi”: quello che accade oltre i muri della nostra indifferenza ci riguarda e ci interpella, anche quando rifiutiamo di vedere.
L’Acled (Armed Conflict Location and Event Data Project), organizzazione non governativa americana, segnala per esempio che nel 2023 i conflitti sono cresciuti del 12% rispetto al 2022 e del 40% rispetto al 2020, tanto che una persona su sei nel mondo oggi vive in una zona di guerra. Ci impressiona, nel cuore della democraticissima Europa, la normalità con la quale conviviamo con la corsa al riarmo. La militarizzazione contagia gli immaginari, il linguaggio, la dialettica politica.
Che questo primo tratto di secolo sia stato e sia tuttora “critico” lo confermano molti altri fatti del nostro recente passato: dalla crisi di sicurezza legata all’ondata terroristica alla crisi della stabilità internazionale segnata dalle guerre degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq; dalla crisi economica seguita al collasso del 2008 alle politiche di austerità che hanno fatto schizzare alle stelle povertà e disuguaglianze, fino alla pandemia da Covid-19. E poi ancora, più di recente, la globalizzazione intaccata dallo scontro tra Occidente e Russia sul suolo ucraino, la ripresa del conflitto nella Striscia di Gaza, con l’estensione di uno stato di guerra non apparente ma palese tra Iran e Israele, il caos informativo con la proliferazione di fake news e post-verità, la crisi climatica e la radicalizzazione tra coloro che vorrebbero spingere sull’acceleratore delle riforme per scongiurare gli effetti del cambiamento climatico e coloro che alla fine del mondo oppongono superficialità e negazionismo.
Non sorprende, allora, che per definire il nostro tempo lo storico Adam Tooze usi la parola “policrisi” o che l’economista Nouriel Roubini parli di mega-minacce. Non sappiamo come questa nostra epoca verrà descritta dagli storici di domani, ma sappiamo che le giovani generazioni, nate negli ultimi vent’anni, crescono in uno stato di incertezza senza precedenti, capace di insinuarsi nei diversi ambiti della vita, nelle pieghe di una quotidianità scandita da lavori precari, dagli schermi iperpervasivi di una società modello piattaforma e da ambienti naturali saccheggiati senza cura.
Perfino il mito del perenne rinnovamento del capitalismo è andato esaurendosi.
Secondo il sociologo ed economista Wolfgang Streeck, il capitalismo in stato di avanzata disintegrazione potrà alla fine crollare «sotto il peso dei disastri quotidiani prodotti da un ordine sociale in profondo disordine.
A farne le spese è la nostra democrazia, faticosamente costruita nel segno (e nel sogno) di un progresso in cui diritti e giustizia sociale fossero stretti da un legame indissolubile, fondamento di ogni promessa di emancipazione individuale e prosperità collettiva. La promessa vacilla, la democrazia è sotto attacco, le povertà si affermano con toni e impatti sempre più pervasivi. E la politica?
La politica invoca spesso la scusa di non poter intervenire, di avere le mani legate dalla globalizzazione, dall’Europa, dall’assenza di alternative (che sarebbe invece suo compito costruire). Oppure fabbrica la propria “impresa del consenso” facendo credere di avere in tasca risposte semplici a problemi complessi.
A rimanere soli, spaesati e sfiduciati sono i cittadini.
Questa sfiducia, col tempo, può prendere la strada della rabbia incontrollata o dell’apatia, ed entrambi i sentimenti sono nocivi per la democrazia. Perché prosciugandosi la fiducia nel futuro, si impone un bisogno di ordine e protezione. Seduce allora l’uomo solo al comando, seducono le radici, le identità, una politica che nega il cambiamento e cavalca la retorica dei confini. Una democrazia corrosa, narcotizzata, che, come osservano Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà nel volume Democrazia afascista, consegna a chi vince il potere di decidere, controllare, monitorare tutto in nome della governabilità.
Per sfuggire alle ombre di un presente che si nutre di paure occorre vagliare altre opzioni, adottare prospettive impreviste, andare fuori rotta. Senza lasciarsi travolgere dalle inquietudini, al contrario rapportandosi al futuro con immaginazione politica, empatia, attivazione civica.
Nell’epoca delle mega-minacce, solo mettendo a fuoco le crisi, decifrando le loro origini e le loro complessità, abbiamo l’occasione di trovare il bandolo della matassa per uscire dal labirinto e mettere in circolo nuovi paradigmi, nuove proposte, nuove possibilità. Reali.
Vuol dire valicare il muro che ci isola dalle cose del qui e ora, e mandare lo sguardo altrove, oltre le nostre personali “zone d’interesse”, attingendo a quel bacino di esperienze, alternative, pratiche, innovazioni, spesso inosservate o lasciate sottotraccia, che possono aiutarci a ridisegnare un diverso orizzonte di vita comune.
A tutto questo guarda la nuova Stagione di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, che abbiamo ribattezzato “critica” per due ragioni. Da un lato andremo al cuore delle crisi che aggrovigliano il presente, alimentando il dibattito e mettendo a confronto posizioni divergenti. Dall’altro – restituendo alla parola “crisi” quell’originario significato di “scelta”, “analisi”, “giudizio” – proveremo a darci gli strumenti critici per scovare nell’incertezza le opportunità delle trasformazioni. Che poi significa irrigare una certa idea di mondo, un inedito progetto di futuro, una proposta di comunità.
A disegnare insieme a noi questa nuova Stagione che vedrà protagonisti interpreti nazionali e internazionali – come Nikita Roy, Yu Hua, Angela Mauro, Gad Lerner, Goffredo Fofi solo per citarne alcuni – contribuiranno, tra gli altri, Nadia Urbinati, Marc Lazar, Mario Del Pero, Emanuele Felice, Nicola Lagioia, Vera Gheno, Beppe Cottafavi, Carlo Boccadoro, Sandro Balducci, Giovanni Boccia Artieri.
Massimiliano Tarantino
Direttore Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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