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La crisi della sinistra nel cambiamento antropologico del XXI secolo


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Il sesto workshop del ciclo 1989. Sotto le macerie del muro – tenutosi lo scorso 19 ottobre – è stato l’appuntamento conclusivo del percorso di ricerca sulla crisi delle sinistre a livello europeo e internazionale, che si era aperto il 24 marzo 2023 con l’History Camp La democrazia non è il mercato. La sinistra e la reinvenzione della democrazia.

Il 1989 come data apicale

Il contesto storico-economico in cui questa crisi è venuta a generarsi è noto – e il 1989 ne rappresenta solo una data apicale: il processo di trasformazioni era iniziato nei decenni precedenti (se si guarda anche solo alla crisi internazionale annunciata dai surriscaldamenti inflazionistici e dagli scompensi valutari degli anni Settanta, e dunque alla fine di un certo capitalismo, ai processi di deindustrializzazione del “mondo occidentale” e di scomposizione del ciclo produttivo sui territori); al contempo, il 1989 rappresenta anche un anno che accoglie e anticipa altri cambiamenti, che nel periodo immediatamente successivo invece si dispiegano, a cominciare dal ciclo di privatizzazioni. Da quella data in avanti, abbiamo assistito infatti anche ad altre trasformazioni radicali che hanno investito tutti i piani della società e che, se è pur vero che hanno destabilizzato il campo politico in modo trasversale, hanno finito per colpire specialmente la sinistra riformista europea, contribuendo a determinarne la perdita di sostegno da parte del proprio referente sociale tradizionale, ovvero i ceti popolari. Una categoria, questa, che se per certi versi è evidente che oggi non voti più, dall’altro è chiaro che, nel momento in cui ciò avviene, finisce per esprimere preferenze tendenzialmente più vicine ai partiti populisti di destra.

Muro di Berlino, proteste del 1989
Muro di Berlino, 1989

Come spiegare questo esito? Quali sono le ipotesi interpretative? Quali le cause?

Sono queste le domande che hanno guidato l’intero percorso di ricerca e che, in questo incontro, sono state declinate all’interno di quell’ultima componente non ancora analizzata dal gruppo di lavoro, ovvero l’intreccio di trasformazioni radicali che Marc Lazar, curatore del ciclo, colloca sotto l’espressione “mutamento antropologico del XXI secolo”.

Leggi l’editoriale
a cura di Marc Lazar

Cosa intendiamo per “mutamento antropologico?”

A unirsi al dibattito avviato da Lazar sono stati Stefano Azzarà, Simona Colarizi, Patrizia Dogliani e Donald Sassoon, a cui si sono poi aggiunti Massimiliano Boni, Leonardo Casalino, Niccolò Donati, Francesco Giordano, Enrico Mannari, Jacopo Perazzoli e Luigi Vergallo.

Ma che cosa si intende, in questo caso, per “mutamento antropologico”?

Gli ultimi decenni che abbiamo attraversato, dagli anni Novanta in poi, sono stati caratterizzati da enormi mutamenti sociali – esogeni e endogeni alla sfera della politica – che sono andati amplificandosi con la fine di un certo mondo operaio, con la frammentazione dei ceti medi, con le trasformazioni del mercato del lavoro in una direzione di forte precarizzazione; ma che sono stati esacerbati anche dal diffondersi di processi sempre più spiccati di individualizzazione (non di individualismo), dall’espandersi delle preoccupazioni ecologiche, dall’ascesa dei populismi e dall’impatto di globalizzazione, fenomeni emigratori-immigratori e, non da ultimo, social network.

Proteste causate dai mutamenti sociali a Berlino nel 1989
Berlino 1989, proteste per la precarizzazione sociale 

Come mette in luce Donald Sassoon, si tratta di questioni che prima di tutto dovrebbero essere storicizzate in sé, per capire se – e in quali casi – si possa parlare effettivamente di “mutamento antropologico” o più semplicemente di trasformazioni sociali (è questo il caso dei processi di personalizzazione politica, menzionati in questo quadro di cambiamento, se si considera che già la storia del secondo dopoguerra aveva visto il protagonismo di soggetti politici come Charles De Gaulle, Wiston Churchill, o Palmiro Togliatti per rimanere in Italia).

Ciononostante, al di là dei dovuti e necessari distinguo relativi ai contesti, appare chiaro che le sinistre queste trasformazioni abbiano saputo nella maggior parte dei casi vederle, senza però essere in grado di dare risposte concrete e di rinsaldare quindi quel legame di fiducia e rappresentatività con il proprio referente sociale.

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La mancata capacità d’analisi

Per Patrizia Dogliani, questo scollamento trova spiegazione, prima di tutto, in una mancata capacità d’analisi da parte delle sinistre europee, che non si sono chieste come sono cambiate le società e, nello specifico, quei gruppi sociali che più risultano colpiti da asimmetrie e disuguaglianze: operai, donne, giovani, immigrati. Questa incapacità di analisi si è tradotta anche, di conseguenza, in un’incapacità di definire dei programmi comuni su cui convergere in funzione di temi urgenti in tutto il “mondo occidentale” – dal lavoro, al welfare, passando per le questioni legate all’ambiente, all’energia, e alle politiche internazionali – finendo, invece, per delegare a istituzioni come il parlamento europeo abdicando, quindi, in qualche modo, al proprio ruolo politico.

 

giovani in protesta nel 1989
Operai, donne, giovani, immigrati, le categorie più colpite dai cambiamenti sociali dell’89

Tra le ragioni di questa mancata analisi, probabilmente, è da includere anche quella che può essere chiamata “l’illusione dei ceti medi”, come ricorda Luigi Vergallo citando Carlo Trigilia – tra gli ospiti che già avevano aperto i lavori dell’History Camp. Dagli anni Novanta in poi, infatti, si era scommesso sulla centralità di questo gruppo sociale, facendosi promotori così di politiche incentrate maggiormente sui diritti individuali anziché su quelli sociali. Le crisi successive a cui abbiamo assistito hanno dimostrato come, in realtà, le istanze riconducibili al rapporto povertà-ricchezza fossero ancora estremamente presenti e che, dunque, questa previsione, questa scommessa, fosse – quantomeno in parte – errata.

Secondo Stefano Azzarà, tra le altre cause rintracciabili della crisi che oggi le sinistre attraversano, è invece da mettere in luce l’influsso del pensiero postmoderno nella società: un pensiero, questo, che ha favorito un processo di individualizzazione (o iperindividualismo competitivo), mettendo in crisi le identità collettive – e dunque i valori cooperativi solidali a essi connesse – che sono quelle di cui avrebbero maggiore necessità i “gruppi subalterni”, su cui le sinistre avevano tradizionalmente fatto affidamento.

 

Come ricostruire il consenso?

Simona Colarizi concorda nel rilevare il fatto che sia mancata la capacità da parte dei soggetti politici di capire le trasformazioni che in quegli anni – prima ancora di guardare ai decenni più recenti – stavano avvenendo: a partire dagli anni Ottanta, le classi politiche europee erano rimaste affascinate dalla certezza di aver trovato una strada per dominare un mondo che non era più quello del miracolo economico, in cui sviluppo e crescita si stavano via via riducendo e i cicli economici ravvicinando. Se la capacità di governo delle sinistre (più che delle destre) si è inaridita, tuttavia, è perché si è pensato che fosse sufficiente affidarsi al mercato e alle privatizzazioni, rinunciando all’intervento pubblico nell’economia. Corollario di questa posizione, è l’idea secondo la quale sia possibile immaginare delle riforme solo nel momento in cui c’è lo sviluppo a sostenerle – segno di un ceto politico, secondo la storica, inaridito e dunque non più progettuale. È una sfida, questa del pensare le riforme anche quando le risorse sono scarse, che può e dovrebbe essere invece affrontata, come sottolinea Luigi Vergallo – anche se il perimetro delle politiche pubbliche oggi si è molto ristretto, come ricorda d’altro canto Niccolò Donati.

Secondo Colarizi, l’unico modo per ricostruire, a sinistra, un consenso è allora costruire un progetto che sappia ancorarsi a un’analisi del reale efficace, che abbia ben presente chi sono i soggetti che deve rappresentare, ma che recuperi anche quel senso di “identità narrativa” che invece manca. Questo concetto lo porta al dibattito Enrico Mannari, aggiungendo che, oggi, un altro elemento a essere andato perso è quello della “comunicazione sentimentale” – per citare Gramsci – ovvero quella capacità di entrare in contatto con strati sociali diversi, di creare quindi reti di relazioni. I partiti di sinistra, invece, non solo vengono percepiti sempre più come realtà distanti, ma anche come grandi macchine elitarie, burocratiche e oligarchiche, presenti quasi esclusivamente al momento del voto, che peraltro hanno messo fine a una certa possibilità di ascesa sociale e politica. Un tema, quello della distanza (che non significa assenza dei partiti nei luoghi fisici ma incapacità della politica di agire per migliorare le condizioni di vita nelle periferie e per combattere le diseguaglianze), messo in luce anche da Jacopo Perazzoli. Da qui, sostiene Massimiliano Boni, la narrazione dell’attuale sinistra come il partito delle ZTL e dei ceti benestanti, cosa peraltro alimentata dalla tendenza del ceto politico a intercettare maggiormente tale tipologia di elettorato.

Caduta del muro di Berlino, 1989
Caduta del muro di Berlino, 1989

A rimanere fuori dal perimetro della riflessione di questo incontro, rispetto al mandato iniziale che ci si era dati, sono tuttavia temi che risultano altrettanto cruciali rispetto a quelli finora delineati per capire le crisi che oggi attraversano le sinistre: l’immigrazione, l’ecologismo e le nuove forme di attivazione politica delle generazioni più giovani. Sono queste, peraltro, nota Lazar, il vero (e forse unico) elemento di ottimismo di questo quadro complicato e controverso: di fronte a un’elevata percentuale di giovani che non si riconoscono nei partiti, ce ne solo altrettanti che sanno farsi latori di contenuti politici forti (si pensi alle mobilitazioni attuali in termini di diseguaglianze, violenze di genere, emergenza climatica,…). Il fatto che questi giovani, quindi, non si riconoscano nell’offerta politica se da un lato rappresenta un problema, dall’altro costituisce certamente una speranza.

Provando a chiudere il cerchio e riprendendo le domande da cui si era aperto, risulta evidente allora che la crisi attuale dei partiti di sinistra non può trovare spiegazione solo nelle aspettative disattese rispetto alle politiche pubbliche a cui la sinistra al potere negli anni Novanta avrebbe dovuto dar voce. A dover essere tenute in considerazione, secondo Lazar, sono anche le reazioni di quei soggetti che la sinistra dovrebbe rappresentare, e che talvolta sono anche reazioni xenofobe e razziste (che i partiti non sanno maneggiare, gestire e arginare) e, infine, di rivolta:  rivolta dei ceti popolari per le proprie condizioni sociali (percepite come a rischio a causa del fenomeno immigratorio), contro le politiche fiscali delle sinistre e contro le politiche di mitigazione del riscaldamento climatico (percepite come lesive degli interessi di questi stessi ceti), ma anche rivolta e ribellione contro l’interesse delle sinistre nei confronti delle “minoranze” (che, di contro, sembra portare in secondo piano le politiche sociali classiche).

Rivolta dei ceti popolari a Berlino
Berlino, rivolta dei ceti popolari contro le politiche fiscali

Come evidenzia Donald Sassoon, se c’è un fenomeno che è quasi uguale in tutti i Paesi, saremmo portati a pensare di dover trovare una spiegazione che valga in modo trasversale per tutti i casi e che si collochi indicativamente nello stesso arco temporale. Il percorso di riflessione di questo incontro, così come la storiografia che su questo si è certamente espressa, ci dice invece che, però, una risposta di questo genere non è possibile rintracciarla. L’impossibilità di trovare una spiegazione univoca non dovrebbe portarci tuttavia in una dimensione di immobilismo e arrendevolezza ma, semmai, spingerci a continuare a riflettere su cause e conseguenze, su percorsi che si intersecano e interrogativi che si stratificano – e dunque continuare a chiederci, prima di tutto, chi sia questo referente sociale a cui le sinistre non sanno più parlare – cosa intendiamo per ceti medi? Cosa per ceti popolari? – recuperando al contempo una visione meno eurocentrica, che sappia cogliere anche quelle spinte sociali che arrivano da fuori del contesto europeo e che, inevitabilmente, lo influenzano.

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