Speciali e longform

Ora tocca a noi.
25 Aprile, l’alba della democrazia 


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C’è una sensazione brutta e nuova nell’aria, avvicinandosi a questo 25 aprile 2024. Una sensazione un po’ crepuscolare che ribalta l’anelito con cui eravamo gioiosamente usciti dal 25 aprile del 1945: che l’Europa fosse attesa da un orizzonte di giustizia sociale; che il tempo dei nazionalismi fosse alle spalle, almeno nelle sue punte più cupe; che si marciasse verso un’epoca di pace, o almeno verso la volontà di provare finalmente a costruirla; che dietro ci fossero le ombre, e davanti alle persone un’alba tutta ancora da esplorare. Come se il tempo della responsabilità degli anni della Resistenza avesse aperto anche al tempo della gioia e della felicità collettiva.

 
25 aprile Vittorio Foa

Scarica l’approfondimento “Il futuro si fa solo partecipando:
La Resistenza come opportunità per pensare nuovi percorsi di libertà”

La sensazione brutta e nuova è data dal fatto che, rispetto al 25 aprile del 1945, oggi non siamo più nel solco – colmo di speranza – di una “democrazia progressiva“, ma impauriti dallo spettro di una “democrazia regressiva”, incapace di cambiare passo al presente. Un presente che pare giunto sulla soglia di un nuovo crepuscolo.

Come sta la democrazia?

Ripercorri l’incontro con Antonio Scurati, scrittore
e Angela Mauro, autrice di Europa Sovrana

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Nel mezzo, è vero, abbiamo avuto altri 25 aprile cupi o periodizzanti. Quelli dei cosiddetti anni di piombo, con la strategia della tensione a mostrare come la democrazia italiana faticasse ancora a diventare moderna. Quello del 1994, quando sicuramente si difendevano costituzione, repubblica e democrazia, ma pure si facevano i conti con una frettolosa normalizzazione operata dal nuovo centrosinistra, e con una ancora più frettolosa equiparazione fra repubblichini e partigiani, fra fascisti e antifascisti.

La storia come campo di battaglia nell’Argentina di Javier Milei

di Camillo Robertini

Passeggiando per avenida San Juan, una delle anonime arterie di Buenos Aires, lo sguardo può essere improvvisamente attratto dal susseguirsi di decine di piccoli ceppi di un cemento matto, tendente al verdastro.

La sinistra appariva divisa e lo avrebbe mostrato da lì a poco il colpevole abbandono della generazione no global, fustigata – ancor prima che a Genova – nella Napoli del centrosinistra, nel marzo del 2001. Due manifestazioni, due appuntamenti che avrebbero cancellato un’intera generazione di protesta e conflitto.

 La piazza del 25 aprile

Intervista ad Andrea Fabozzi, direttore de Il Manifesto

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Oggi, anche quello slancio, seppur frazionato, sembra in parte perduto. Serve dunque continuare a cercare gli anticorpi per uscire dalla situazione che stiamo vivendo. E dove cercarli? Il 25 aprile di ottanta anni fa, il conflitto armato sembrava finalmente alle spalle e come ci ricorda Ferruccio Parri c’era un paese da ricostruire. Un Paese dove mancava il lavoro, il carbone, i vestiti e il pane. Dove la Liberazione era premessa della ricostruzione: la scuola e le strade, ferrovie e la giustizia, i ponti e la sanità pubblica.

E’ in gioco l’avvenire

di Ferruccio Parri

25 aprile Ferruccio Parri

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Oggi, tutti gli organi di stampa ci dicono che i cittadini europei devono essere “preparati alla guerra”. Pace e corsa agli armamenti vanno costruiti e si costruiscono sul medio e sul lungo periodo: con l’educazione, con l’istruzione, con la cultura in genere; sul breve periodo si costruiscono soprattutto con gli organi di stampa e con il “senso comune”. Serve un nuovo pacifismo, ed è proprio al pacifismo, o, meglio, alla costruzione della pace vs. la costruzione della guerra, che dedicheremo la prossima edizione del Festival Che Storia!. Oggi, serve lavorare non per un pacifismo imbelle, non per discorsi astratti sulla pace, ma – in una situazione in cui la guerra sembra tornare a dare le carte anche in Europa – serve lavorare per un pacifismo di movimento. Serve far sentire, a chi la guerra la vuole, che esistono in ogni angolo d’Europa delle persone e dei gruppi, fossero anche piccoli e impauriti, che a frantumare il sogno europeo a colpi di cannone non ci pensano proprio.

Ottanta anni fa le giovani generazioni erano state chiamate alla mobilitazione e avevano ribaltato la loro risposta “presente” per mandare a casa i fascismi, in una lotta che per molti – come ha scritto Pietro Secchia – non durò 18 mesi ma 18 o 20 anni.

Pietro Secchia

Pietro Secchia (1903-1973), politico e antifascista italiano

 25 aprile ieri e oggi

Vox Populi

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Quei valori non sono morti. È morta la capacità delle generazioni più mature di comprendere che la trasmissione di quegli stessi valori alla generazione successiva non è mai, non può mai essere un processo indolore. La capacità di comprendere che quella trasmissione, per quanto i valori possano essere condivisi, non è un passaggio senza conflitto. Che ogni generazione cerca – e alla fine trova – i propri modi e la propria strada. Oggi, le giovani generazioni che vogliono rispondere che sono “presenti” sulla scena politica vengono stigmatizzate, represse, isolate, come si vede dalle università fino alle mobilitazioni contro il clima, nel nome del conformismo e del perbenismo: “non si manifesta così”, “non si protesta cosà”

Attivismo e nuove forme di protesta

di Mai più Zitt3

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È come se il mondo di oggi, rispetto al mondo di ieri, avesse voltato le spalle al futuro, perché a guardarlo frontalmente rischierebbe di trovarlo agghiacciante. Anche all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, quando in Europa le scorribande dei neonazisti ricominciavano a fare morti e feriti, a decine, soprattutto fra gli immigrati, e spesso anche fra i militanti di sinistra, la risposta fu – di nuovo – una altrettanto forte e impaziente ondata di antifascismo, che traeva certamente linfa e coraggio dalla caduta del Muro di Berlino (ciò che riunì finalmente giovani antifascisti e europei che prima si trovavano divisi) e dalla spinta progressiva di un progetto europeo, appunto, che sembrava unire – nella direzione della democrazia – tutte le cittadine e i cittadini del continente. Che, infatti, non furono passivi nemmeno verso le istituzioni, che furono contestate nel loro disegno di un’Europa “delle banche” e non “dei cittadini”. Nella accelerazione di un processo di globalizzazione che minacciava di lasciare più indietro sempre gli stessi, arricchendo ancora di più i pochi (e soliti) noti.

Passioni di Ieri e di oggi

di Paolo Berizzi, giornalista

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Oggi ci fa paura la guerra. Ci sembra che il mondo scompaia. Facciamo sempre più fatica a pagare l’affitto oppure il mutuo, a far mangiare i nostri figli, a studiare. Viaggiare sembra ormai un privilegio. Ecco: il primo anticorpo sta forse nel rivalutare l’idea che il conflitto ci serve; che il conflitto è un nostro alleato. Che, senza il conflitto e la democrazia che diventa inutile, perché muore. Cessa di essere tale.

Per il pane, per l’uguaglianza, per la libertà e per la pace. Può, forse deve, essere lo slogan del 25 aprile che arriva. È il momento di ricominciare a fare dei passi in avanti.

 

L’importanza del conflitto

di Vera Gheno, sociolinguista

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