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Cambiamento antropologico o grande stordimento?


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Il percorso della sinistra italiana nell’ultimo trentennio ha alternato risultati importanti e cocenti sconfitte. I primi sono stati raggiunti soprattutto sul piano istituzionale. L’elezione a Capo dello Stato di propri dirigenti, o comunque di uomini “d’area”, è stato un capolavoro politico: Ciampi, Napolitano-I, Napolitano-II, Mattarella-I e Mattarella-II, segnano una linea vincente che si proietta lungo un trentennio. Inoltre il centro sinistra ha mostrato una spiccata capacità di attraversare crisi economiche e di governo come la salamandra con il fuoco, anche a prescindere dall’esito elettorale. Va infine ricordato sia il successo essenziale dell’ingresso nell’area euro, sia l’allargamento dell’Unione, entrambi realizzati da Romano Prodi, prima come capo del governo e poi della commissione europea.

Presidente Sergio Mattarella
Presidente Sergio Mattarella

Le sconfitte sono invece quelle certificate dai dati macroeconomici: nell’ultimo trentennio il paese è stato guidato per circa tre lustri dal centro sinistra senza che ciò impedisse una crescita stentata, un tasso di disoccupazione giovanile e femminile tra i peggiori del continente, una fortissima disuguaglianza territoriale. Soffriamo da anni una crisi della cittadinanza che si esprime in un profondo distacco dalle istituzioni (così a lungo ben presidiate dal Pd) e dalla politica, che impantana le forze di sinistra nella gora di un sentimento collettivo di sfiducia dalla quale, al momento, neppure la novità della segreteria Schlein sembra trovare il modo di uscire.

Testo pubblicato nell’ambito dello speciale  La crisi della sinistra nel cambiamento antropologico del XXI secolo a cura di Elena Cadamuro

Quali sono le cause? 

Naturalmente non si tratta di una responsabilità da addebitare solo alla sinistra; anzi, proprio l’impegno assunto dal partito che più rappresenta quell’area in momenti economicamente e politicamente drammatici –  Tangentopoli (1992), governo Ciampi; crisi dei debiti sovrani (2011), governo Monti; crisi istituzionale (2022), governo Draghi – ha consentito di superare il rischio di un collasso. A rintracciare le cause dei mali sopra indicati, vanno certo indicati gli anni di Berlusconi. Il forte involgarimento conosciuto in quella lunga stagione ha segnato il deterioramento del ruolo italiano sulla scena internazionale, la crisi dei conti pubblici, ma anche della tenuta sociale, economica e morale del paese. Per anni si è registrata la banalizzazione delle analisi, la negazione dei mali, la grossolanità dei rimedi, la moltiplicazione dei conflitti di interesse, lo scontro con gli altri poteri dello Stato. Eppure, è come se il berlusconismo – modello di un carattere nazionale ciclicamente ricorrente – avesse progressivamente intorpidito le forze ad esso antagoniste. Come se i sorrisi, la retorica infinita, i modi da “caimano” avessero stordito il campo progressista, lo avessero spinto a rinunciare a percorrere strade davvero alternative e lo avessero rassegnato a rincorrere l’avversario. Come se in questa progressiva deriva la sinistra non abbia saputo opporre un’idea di paese davvero alternativa; e che anzi, nella effimera stagione renziana, avesse tentato addirittura di diventare un fac-simile di quel modello, per mezzo di una via alle riforme personale e accentratrice. La stessa via lungo la quale sembra oggi incamminarsi la premier Meloni, leader dell’esecutivo più a destra della Repubblica, che governa per mezzo della decretazione d’urgenza, e che ora annuncia un progetto di riforma costituzionale a dir poco strampalato.

E fuori dall’Italia?

La crisi della sinistra italiana non è un fenomeno isolato. Va ricordato che a determinare le difficoltà delle sinistre – anche di quelle che riuscivano a raggiungere il governo, più moderate e disponibili al cambiamento, etichettate con la formula della “Terza via” –, sono stati una serie di fattori: il cambiamento dei cicli produttivi e conseguente espulsione di lavoratori; il dumping economico praticato da e presso i paesi economicamente più arretrati, agevolato dall’abbattimento delle frontiere doganali; le cicliche tempeste finanziarie alimentate, oltre che dal disordine dei bilanci pubblici colpiti, dagli spiriti speculativi dei mercati; i nuovi flussi immigratori, con conseguenti problemi di accoglienza e integrazione. Insomma, la globalizzazione è stata scambiata troppo presto come il pranzo di gala cui la sinistra si sarebbe accomodata solo che avesse brindato alla modernità, prima di accorgersi che le cose erano più complesse e difficili. Certo non deve avere aiutato a elaborare una lettura adeguata della realtà quella smobilitazione che dopo il 1989 ha colpito molti, incapaci di proporre modelli alternativi a quelli vantati da chi si proclamava vincitore dopo mezzo secolo di guerra fredda. All’ordine mondiale che doveva reggersi dapprima sulla liberalizzazione del commercio e poi sull’uso della forza, è seguita la fase attuale di maggiore disordine, alla quale la destra risponde suggerendo modelli identitari e conservatori (il riccio), mentre la sinistra si scopre incapace di diventare volpe.

Ora e sempre: che fare?

In questa enorme difficoltà a ripensare un modello di comunità democratica, le soluzioni più brevi sono sembrate spesso le migliori. L’assuefazione al malessere manifestato dai ceti poveri o impoveriti, che si esprimeva con il continuo calo dei votanti e lo spostamento verso forze populiste, ha prodotto in buona parte della sinistra italiana una lettura consolatoria della rappresentanza (il partito della ZTL); nonché raffinate tattiche parlamentari, in grado di assicurare il mantenimento del controllo di molti apparati statali. Almeno fino a quando, lo scorso settembre, tutti i nodi sono venuti al pettine, e la scelta di arroccarsi a oltranza nella cittadella del governo si è dimostrata drammaticamente sbagliata: si fosse usciti prima dal fortino, si sarebbe scoperto una comunità ferita, delusa e smarrita; forse non lo si è fatto proprio perché tale smarrimento rispecchiava il proprio disorientamento.

Ora che però l’incantesimo è rotto, e che in Italia comanda una forza politica ideologicamente estranea, se non ostile, al modello valoriale della Costituzione del 1948, procrastinare ancora l’elaborazione di un’alternativa culturale e politica non sembra più possibile.

I nodi da sciogliere sono tanti. In via di esempio si può indicare l’invecchiamento e il calo demografico, il cambiamento climatico, il mutamento sociale legato all’immigrazione. Non va poi sottovalutato lo scenario internazionale, alla vigilia di un anno elettorale fondamentale per l’Unione europea e gli Stati Uniti. L’Italia è un paese per vocazione e per necessità europeista, dunque occorrerà saper elaborare una visione dell’Europa capace di rispondere ai pericoli che corriamo a causa di forze populiste, autoritarie, xenofobe, ma anche, da ultimo, per il riemergere di un antisemitismo che prende a pretesto la dura reazione di Israele all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Sono, tutti questi, nodi spesso intrecciati e che, se non governati, ci condanneranno a un ulteriore declino. Per scioglierli occorre leggere i cambiamenti e offrire risposte adeguate. Soluzioni semplici non ce ne sono; del resto, una realtà complessa richiede risposte complesse. A voler suggerire un inizio, non sarebbe male una sinistra che ponesse al centro la rimozione delle tante disuguaglianze presenti: di genere, di età, di condizioni economiche e sociali, territoriali. Lo prescrive la Costituzione, in questo per buona parte inattuata. Una sinistra simile può forse sperare di dare un futuro al paese, oltreché a sé stessa.

 

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