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Il caso di Israele al tempo delledemocrature 

Cosa è successo alla democrazia liberale?


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Il 9 gennaio il Ministro della Giustizia israeliano Levin e il Ministro degli Esteri Sa’ar hanno presentato un nuovo pacchetto di riforme del sistema giudiziario israeliano, finalizzato ad aumentare il potere politico sulle nomine giudiziarie e a limitare la capacità della Corte Suprema di invalidare le leggi promosse dal Parlamento. Le nuove ipotesi sono l’ideale riproposizione, seppure in scala ridotta, dell’ampia proposta di riforma che ha scatenato le grandi manifestazioni popolari interrotte con i fatti del 7 ottobre 2023 e la crisi umanitaria conseguente. Si tratta, pur nella formulazione generica e informale di questa nuova proposta, di misure che tentano nuovamente di “politicizzare” il sistema giudiziario israeliano e neutralizzarne il potenziale contro-maggioritario sottoponendolo al potere Esecutivo 

La giustizia sotto attacco

L’Associazione degli Avvocati di Israele ha denunciato la “totale politicizzazione” delle nomine alla Corte Suprema, mentre gli studiosi di diritto costituzionale hanno espresso preoccupazione per l’erosione dell’indipendenza giudiziaria rispetto ai poteri politici. 

La proposta arriva parallelamente all’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha profondamente acuito le divisioni all’interno dell’Esecutivo israeliano e accentuato le tensioni tra le diverse componenti del Governo. I parlamentari del blocco ultra-sionista e antiarabo hanno mostrato una profonda spaccatura. Il 19 gennaio, infatti, Otzma Yehudit di Ben Gvir ha abbandonato il Governo, accusando Netanyahu di aver ceduto ai cosiddetti “ricatti” internazionali, così da impedire una “vittoria definitiva” di Israele. D’altro canto, Smotrich, leader del Partito Hatzionut Hadatit, ha scelto, al momento, di rimanere nell’Esecutivo, pur rivendicando maggiore libertà d’azione per portare avanti la questione centrale dell’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e dell’annessione di questi territori allo Stato di Israele. 

Se dunque le nuove proposte arrivano in una contingenza politica specifica per il Governo più a destra della storia dello Stato – che deve ora fare i conti con una maggioranza parlamentare di soli 62/120 e con l’inquietudine dei partiti ultraortodossi, ai quali è stata nuovamente promesso, nonostante l’opposizione e le sentenze della Corte, un disegno di legge per l’esenzione militare – la fase regressiva della qualità democratica e costituzionale non è nuova. Semplificando, è almeno dall’approvazione della Nation State Law del 2018 che al comma C dell’art.1 sancisce non senza polemiche che “The realization of the right to national selfdetermination in the State of Israel is exclusive to the Jewish People”, che il sistema politico e giuridico affronta una preoccupante fase di degenerazione costituzionale.

L’instabilità cronica, che ha portato a 5 tornate elettorali tra il 2019 ed il 2022, è il segnale di un sistema partitico sempre più polarizzato e diviso, brillantemente illustrato dall’ex Presidente Rivlin attraverso la metafora delle “tribù di Israele”, e che tuttavia, a differenza di queste ultime, si nutre di formazioni che nascono e muoiono rapidamente e altrettanto velocemente si alleano e si scontrano. 

Fiducia persa, democrazia sospesa

A riprova delle molte difficoltà del momento, per la prima volta, nel 2024, il Global democracy index report del V Dem Institute ha declassato Israele da “democrazia liberale” a “democrazia elettorale”, con l’indice che attribuisce esplicitamente il calo del “punteggio democratico” ai tentativi dell’Esecutivo di approvare la controversa riforma giudiziaria lo scorso anno. Sebbene la Corte sia successivamente intervenuta sul tema, sancendo il primo caso di annullamento di un emendamento ad una Legge Fondamentale israeliana da parte della Corte Suprema (che non a caso vedrebbe questa prerogativa cancellata nei piani di Netanyahu), l’indice riconosce, proprio nella iniziale approvazione della misura, un preoccupante sintomo di erosione della democrazia israeliana. 

Anche sul fronte interno le cose non migliorano: il Rapporto 2024 sulla Democrazia in Israele sottolinea una percepibile diminuzione della fiducia nei confronti delle istituzioni, aggravata dalla percezione diffusa di inefficienza che le caratterizzerebbe, e da una frammentazione politica polarizzata che continua a mettere a dura prova il funzionamento del sistema di governo.

Il dato che emerge con maggiore forza è il contrasto tra la fiducia riposta nelle forze di sicurezza e quella, molto più ridotta, nelle istituzioni politiche e giudiziarie. Mentre l’esercito continua a essere l’istituzione con il livello di fiducia più alto (77% tra gli ebrei e 30% tra gli arabi), altre istituzioni, come la Corte Suprema e il Governo, sono percepite in modo più negativo. La fiducia nel Parlamento e nei partiti politici è ancora più bassa, con un dato che si attesta rispettivamente al 16% e al 10,5%, segnalando una grave crisi di legittimazione. (Solo nel 2021 era 25% per la Knesset e al 15% per i partiti). 

Benjamin Netanyahu
Benjamin Netanyahu
"Con queste difficoltà e oscillazioni, il caso israeliano costituisce una sorta di «laboratorio» di estrema importanza per comprendere le processualità costituzionali in questo momento in atto a livello globale".

La dinamica in corso in Israele rappresenta infatti, in modo esemplare, lo scontro che va profilandosi a livello globale tra democrazia costituzionale e democrazia elettorale: l’una riconducibile ad un quadro di limiti giuridici costituzionali retti dal principio di rule of law garantito dalla giurisdizione, l’altra fondata sull’idea che la legittimazione elettorale garantisca piena discrezionalità politica nell’esercizio della funzione di governo

Si tratta in effetti di una tendenza rilevabile – con modi e forme diverse, ma appunto in qualche misura meno nitide – in molti altri ordinamenti, segnalando un percorso talmente significativo da richiedere forse la messa a punto teorica di un nuovo modello costituzionale. Lasciando al momento da parte i problemi definitori e le categorie con le quali parte della dottrina giuridico-politica tenta di “fissare” le caratteristiche centrali del processo – con una nomenclatura che include etichette come democrature, democrazie illiberali o deboli, incerte, o parzialiresta il fattoempiricoche simili combinazioni di leadership forte, di significativa costrizione dello spazio parlamentare e del ruolo delle opposizioni sono riscontrabili, insieme al costante attacco alle Corti (si pensi al caso polacco), in molti ordinamenti contemporanei 

Il lungo crepuscolo della libertà

 Gli Stati Uniti costituiscono, a questo proposito, un esempio inevitabile quanto cruciale. La presidenza Trump ha infatti segnato (e segnerà) un momento decisivo nella crisi delle democrazie liberali, con la promozione di una leadership personalistica e polarizzante, accompagnata da un costante attacco alle istituzioni contro-maggioritarie ed alla stampa libera. La retorica di Trump ha alimentato una crescente sfiducia nelle istituzioni, indicando il deep state come fonte di tutti mali, rafforzando il populismo e riducendo il rispetto per i principi costituzionali. Culmine e in qualche modo icona rappresentativa del processo è l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, che ha simboleggiato un punto di rottura nella tenuta democratica del paese.

La nuova età dell’oro dell’America Great Again risulta così segnata da una cascata di Executive Orders (42 nel giro di 12 ore e circa 50 in totale, contro i 162 emanati da Biden in tutta la sua presidenza), su temi fondamentali come l’uscita dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dagli accordi sul clima, la questione dei dazi e del tax deal, il nodo dell’energia e delle politiche dell’immigrazione e della cittadinanza, immediatamente segnate dalla limitazione dello storico ius soli

"Se pure non tutti gli ordini esecutivi sopravvivranno al Congresso e alla Corte, essi segnalano comunque, nel disegno e nelle intenzioni che li ispirano, una specifica «cultura» di Governo".

Rinviano in altri termini a un metodo, affine a quello di Milei in Argentina, di Orban in Ungheria, Bukele in Salvador, Lasso in Ecuador e di molti altri leader e ordinamenti globali, che pure, come la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin, nulla hanno mai avuto in comune con le istanze della democrazia liberale.  

Una cultura che, a guardar bene, non appare troppo lontana da quella messa in atto anche in altri contesti meno espliciti, talvolta peraltro più disordinatamente che per lucida determinazione (si veda il sondaggio del Times in cui il 52% degli intervistati tra i 13 e i 27 anni ritiene che il Regno Unito sarebbe un posto migliore “se ci fosse un leader forte al potere che non debba preoccuparsi di elezioni e Parlamento”). Fra questi forse anche l’Italia, ormai stabilmente caratterizzata da un problematico e anticostituzionale monocameralismo di fatto, da un evidente abuso dei decreti-legge e da un imbarazzante pressapochismo parlamentare, visibile ad esempio nelle lacune sulle recenti proposte di Premierato. 

La democrazia liberale, ottimisticamente celebrata da Francis Fukuyama come punto di arrivo dell’evoluzione ideologica e modello universale per il futuro dell’umanità, è oggi profondamente in crisi, insidiata da trasformazioni che ne stanno erodendo i pilastri fondamentali. L’ascesa di modelli politici illiberali e autoritari è caratterizzata da una combinazione di leadership forti, di delegittimazione di ogni elemento di intermediazione, di retorica nazionalista e xenofoba, di svuotamento delle istituzioni rappresentative e di prepotente tendenza all’attenuazione del principio della separazione dei poteri.

Spinte e processi che, insieme, disegnano una realtà sempre più distante dai principi fondativi dello Stato di diritto e della tutela delle libertà individuali.

Se Fukuyama aveva teorizzato la democrazia liberale come compimento politico e, in questo senso, come la «fine della storia», novità inquietanti premono alle porte: la storia sembra dopotutto avanzare impreviste – e forse non luminose – alternative. 

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