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Il carcere come metafora del potere


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Riflettendo sugli interrogativi che pone Luigi Vergallo nel contributo che apre il dibattito su queste pagine – perché è così difficile interrogarsi sul carcere, i diritti, il ruolo della pena, anche in una democrazia matura? – sono tentata di riandare al legame profondo che l’istituto del carcere intrattiene con il potere, quindi con la morte e con la vita.

Perché il caso di Alfredo Cospito, da quasi quattro mesi in sciopero della fame contro il regime del 41-bis, fa emergere il lato più feroce e punitivo della destra di governo. Ma forse permette di osservare anche qualcosa di più essenziale.

In Massa e potere, capolavoro novecentesco di antropologia politica, Elias Canetti descrive il carcere come uno spazio, ideato dalle civiltà umane, che ha il suo oscuro prototipo nelle fauci dell’animale.

«Le fauci o la bocca si aprono prontamente, se già non erano aperte durante l’agguato, e una volta rinserratesi, restano definitivamente chiuse: ciò ricorda le temute caratteristiche peculiari della prigione».

Il carcere è un’«amplificazione delle fauci»: al suo interno si dispiega non la forza pressante e immediata che afferra e incorpora la preda, bensì il potere, che si esercita concedendo al prigioniero «più spazio e anche un po’ più di tempo».

Nella prigione «si possono muovere alcuni passi in qua e in là, come fa il topo sotto gli occhi del gatto, e spesso ci si sente alle spalle l’occhio del carceriere». Tempo, spazio e speranza trasformano l’esperienza del dominio: il prigioniero non sarà immediatamente divorato ed incorporato da mandibole mostruose, può confidare nella possibilità di fuggire o di essere liberato, ma «avverte continuamente l’interesse per sua distruzione, nutrito (anche quando sembra cessare) dall’apparato che lo tiene in carcere».

Per Canetti dunque la prigione è una metafora del potere e, tra tutti gli spazi sociali, quello che più avvicina alla comprensione della sua essenza. «

Chi vuole dominare sugli uomini», scrive, «cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza e diritti, finché siano dinnanzi a lui impotenti come animali».

Nella modernità, il costituzionalismo liberale è stata la teoria e la pratica del porre limiti all’esercizio di questo potere-dominio, riconoscendo l’esistenza di diritti fondamentali che non sono nella disponibilità del sovrano o della pubblica autorità. Diritti che il potere politico non solo non può violare, ma deve anzi rispettare e proteggere. Anche nel caso delle persone private della libertà.

Questa tradizione ha trovato piena espressione nelle costituzioni. Quella italiana stabilisce – in negativo – il limite che il potere non può valicare nell’esercizio pena, cioè la tutela della dignità umana del condannato, insieme all’obbligo positivo per cui questa «deve tendere alla rieducazione del condannato».

Il processo di costituzionalizzazione dei limiti e degli obblighi del potere ha allontanato così l’istituto penitenziario dall’immagine dell’antica segreta o dalla camera di tortura.

Non per questo, però, si può dire del tutto rimossa la radice oscura che lega l’internamento a quelle componenti di «spazio, speranza, sorveglianza, interesse per la distruzione» che Canetti indicava come il «vero corpo del potere», o il potere stesso.

È in particolare nella pena dell’ergastolo ostativo che ricompare il volto antico del potere, delle fauci che si rinserrano.

L’ergastolo, scrive Stefano Anastasia ne Le pene e il carcere (Mondadori), è «pena di morte viva», perché «l’evento morte compie una pena che si svolge lungo tutta la vita residua del condannato, che la vive sapendo di dover morire in quella condizione di privazione della libertà, in esecuzione penale». Il che significa che, pur non mettendo fine alla vita, il potere della pena si esercita nel sottrarre al condannato ogni possibilità di vita propriamente umana.

Il «carcere duro», come modo di applicazione corrente del regime detentivo del 41-bis, è un altro volto della ferocia del potere del più forte, sopita ma mai del tutto sconfitta anche nelle democrazie costituzionali.

La sordità alla domanda di vita, di vita dignitosa, che proviene da un detenuto in sciopero della fame – quali che siano i reati di cui si è macchiato, e quale che sia la loro gravità – svela il carattere necropolitico delle politiche della pena.

Svela quel rapporto privilegiato che, secondo Canetti, il potere intrattiene con la morte, oggi visibile soprattutto nelle forme di repressione, marginalizzazione o abbandono sociale attuate nei confronti di alcuni gruppi. Tra questi, la popolazione dietro le sbarre.

Che l’opinione pubblica di una democrazia matura accetti tutto ciò indica quanto in profondità alligna ancora, nel senso comune, l’idea del carcere come segreta, luogo di rimozione, morte sociale, o morte in vita, in cui il male può essere confinato, allontanato dalle persone per bene; e di fronte a cui il potere è non solo autorizzato, ma chiamato a mostrare il suo volto più duro.

La passiva accettazione del potere, credeva Canetti, equivale a una capitolazione davanti alla morte. In una democrazia, la passività di fronte a un potere che lascia morire in carcere, mentre produce sempre nuovi casi di «morte viva», equivale a un tradimento della Costituzione, dei suoi principi, in cima ai quali si trova la difesa della vita e della dignità della persona.

Quattro riflessioni

#1 Il caso Cospito di Luigi Vergallo leggi l’articolo 

#2 La Repubblica dello Iato di Angelo Miotto leggi l’articolo 

#3 Carcere e potere di Giorgia Serughettileggi l’articolo 

#4 La democrazia e il carcere duro di Jacopo Tondellileggi l’articolo 

 

 

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