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Il ritorno della razza 2.0 e la bandiera dell’accoglienza


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Si può essere liberi e felici solo se lo sono anche gli altri. Contro il razzismo moderno, issiamo le vele

Oggi la parola “razza” è indicibile, o quasi, per tutti. Nel mio giornalismo soltanto una volta ho trovato una persona che ha rivendicato d’essere “razzista” perché “razzismo è una bella parola”. Ero a Predappio, e l’uomo era in fila per onorare la tomba di Benito Mussolini e il suo contenuto.

Il razzismo 2.0

Ho incontrato invece tantissimi razzisti nella mia vita, lavorativa e sociale, che però negavano di esserlo. La famosa versione Dux2.0 del “non sono razzista ma…”.
Cioè attribuire agli altri il motivo per cui invece facciamo schifo noi.
Declinando la frase, estendendola: “Non sono razzista, sono gli altri che sono neri”. O lesbiche, trans, disabili, Down, comunisti, donne, rom o sinti. Perché il razzista ce l’ha con qualsiasi minoranza non gli somigli. Anche se poi molto spesso e per fortuna, a non somigliare a lui è una maggioranza. Una maggioranza sottile, sfibrata, dai principi talvolta claudicanti, ma ancora sopravvivente ai rigurgiti razzisti.

Il razzista2.0, oggi, non si vergogna più. Bei tempi quando non c’era già più Lui, ma comunque un certo pudore impediva esclamazioni pubbliche da Mein Kampf anche se eri al terzo spritz al bar. Oggi invece certe affermazioni prendono voce come brindisi pre aperitivo, evidentemente non è mai stata colpa dell’alcool, e neanche dei bar.

Il razzista2.0 non si vergogna più, però ha capito che esiste uno zoccolo duro (o qualche volta solo molliccio) di resistenti. Cioè persone che nonostante tutto hanno ormai introiettato almeno una manciata di principi, fra cui appunto che “razza” è una cloaca antiscientifica e se te ne appropri fai figura pessima (e non “barbina”, perché poveri barbari, erano ben più civilizzati di certi razzisti). Tecnicamente: data l’impossibilità, sotto il profilo biologico, di identificare un individuo sulla base di qualsivoglia marcatore genetico, la parola “razza” oggi non ha alcun significato, se non quello di rappresentare chi l’ha utilizzata e fomentata per guerre, deportazioni e stupri come mezzo di conflitto.

Per questo anche i razzisti non usano più la parola razza e i loro derivati (a parte il mio non amico a Predappio), e ne coniano di nuove. È marketing con il vocabolario.

Il nuovo lemma: “Remigrazione”

I razzisti2.0 hanno bisogno di trovare a ogni stagione nuovi lemmi che indichino un percorso razzista; non si vergognano di loro stessi, hanno soltanto capito come aumentare il consenso.
In altre parole il razzista2.0 si è fatto furbo, anche se questa potrebbe sembrare una contraddizione in termini.

La brutta notizia è che i razzisti2.0 macinano consenso quasi ovunque nel mondo, anche grazie alle loro nuove parole, coniate per odiare, ad esempio “remigration”, la parola dietro cui si nasconde la mefistofelica “deportazione”. Tipo il mostro che spunta da dietro il mostriciattolo.
“Remigration” è solo presentabile nei salotti, ma significa letteralmente “migrazione indietro”, e cioè appunto deportazione; o se vogliamo spiegarla con dieci parole: “ritorno forzato nei luoghi da cui la persona è fuggita”.

Questa settimana Casa Pound ha affisso una serie di manifesti con scritto: “Remigrazione, inverti la rotta!”.
Il Governo italiano strizza l’occhio destro, l’unico a sua disposizione, a questa parola. Da tempo il partito tedesco AfD usa la parola “remigration”, e trae molti dei suoi successi proprio da questa campagna.
Negli USA il presidente Donald Trump ha fatto pubblicare la foto in catene di persone che venivano “riportate indietro”, verso il Messico da cui erano fuggite. Del resto il prefisso “re” ha proprio questo significato: il ripetersi di un’azione in senso contrario. Ecco cosa significa “remigration”.

“Benvenute e benvenuti”

E noi?

Proviamo a costruire qualcosa d’altro, e di migliore. Anche perché si può essere liberi e felici soltanto se lo sono anche gli altri, e anche se Giorgio Gaber non va più di moda, aveva ragione.

Per restare nei miei dintorni, ma soltanto perché conosco meglio questi di altri, sono presidente di Sheep Italia, un’associazione che prova a cambiare il mondo una persona alla volta. Questa settimana, per restare all’attualità stringente, siamo entrati a far parte di “Tutti gli occhi sul Mediterraneo”, insieme con Arci e Sailingfor Blue Lab, un progetto di monitoraggio, e incidentalmente di salvezza, per chi rischia di affogare nel Mediterraneo.

Voi avete ricevuto questa newsletter oggi, sabato. Io oggi sono in un porto del sud Italia a visitare la barca delle nostre prossime missioni, con la nostra bandiera di accoglienza. Altro che “remigration”, noi diciamo “benvenute e benvenuti”. Però, per farvi capire: il nome del porto da cui salperà la barca, non posso scriverlo, il rischio è che le autorità fermino la barca e non ci facciano partire.
Questo per darvi l’idea, forse più di ogni altra cosa, dei tempi bui che stiamo attraversando.

Diamo spazio alle parole, issiamo le vele.

 

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