La paura del dissenso
“ll conflitto genera energia”. La sentenza, lapidaria, è di Giulio Giorello, filosofo della scienza. Me la affida in un bar di Milano, in un pomeriggio di luglio del 2006 mentre commentiamo il trionfo del moderatismo nelle corazzate del mainstream e nelle dichiarazioni dei politici che usano il centro come virtù a scapito delle ali estreme. Sentenza valida più che mai oggi, quando oltre alla normalizzazione legislativa assistiamo alla manipolazione tecnocratica. La quotidianità, la nostra quotidianità, è un continuo dilemma fra accettare e obbedire, confliggere e trasformare. Se ovviamente siamo chiamati a obbedire alle leggi, questo non significa non agire il dissenso, anche attraverso il conflitto. Solo un paio di citazioni di scritti di tempi diversi, Norberto Bobbio: “Soltanto là dove il dissenso è libero di manifestarsi il consenso è reale, e soltanto là dove il consenso è reale il sistema può dirsi a buon diritto democratico” [1].
E poi le parole di Miguel Benasayag e Angélique del Rey sull’evoluzione securitaria: “Il conflitto, che la vita nella sua complessità porta sempre con sé, è qualcosa da circoscrivere, da tenere a freno, in una parola da securizzare. Di qui la propensione a criminalizzare ogni forma di opposizione, al punto che anche atti puramente simbolici vengono trattati come autentici crimini” [2].
Dissenso e conflitto presuppongono una terza parola che è partecipazione, un concetto che esiste ed è in salute nella vita associativa formale e informale, ma in stato terminale nella sua accezione di partecipazione politica, presupposto della democrazia rappresentativa.
La scelta di Lelia Minghini
Attingiamo a una data nel serbatoio della Storia: 1945. La Resistenza, la Liberazione dal nazifascismo, di cui celebreremo gli 80 anni, è ancora un esempio fertile per noi che viviamo tempi e condizioni differenti? Come ci parla? Lo scenario macro, quello delle alleanze e della strategia non esiste senza il micro: nelle tante, tantissime storie c’è sempre un momento spartiacque, quello del dilemma personale che ricordavo all’inizio. Lelia Minghini, infermiera di Niguarda dai sentimenti antifascisti viene presa da parte da Maria, che deve scappare perché scoperta, e che le passa il testimone perché ha fiducia in lei. Lelia può fare due cose: accettare di non correre un rischio mortale per lei e la sua famiglia, oppure diventare un punto fermo della Resistenza in ospedale. Il contesto è quello di un Paese dilaniato, della necessità di reti di collegamento e di staffette, di luoghi per nascondere e fare evadere. Ma quella di Lelia è l’unica vita che ha. Il suo dissenso si esprime in un conflitto che la porta dentro una partecipazione attiva.
Chi non abbraccia la causa è un pavido? Il dilemma presuppone una libertà di scelta. Ma noi oggi festeggiamo e ricordiamo tutte quelle donne e uomini che fecero una scelta, e quel conflitto – che fu violento in quel caso – è stato generativo per una comunità che chiedeva libertà.
Ancora. Dagli anni ’70 in poi, dalla conclusione dei cosiddetti Anni di piombo, la parola conflitto e anche dissenso sono entrate in una concezione che troppo spesso richiama la violenza. Certo che ci fu violenza, ma non è per nulla sinonimo, o conseguenza diretta del conflitto. La legge, che è norma comunitaria, diventa sempre più una regola che restringe, più che allargare. Lo sviluppo della “legalità democratica”, quel principio secondo il quale pratiche legittime, ma non legali, sono capaci di modificare il complesso delle leggi in un futuro prossimo, ci permette di dimostrare come il conflitto sia davvero energia: la magistratura attraverso gli adattamenti del diritto alle esigenze e trasformazioni della società, si troverà a modificare la deterrenza prevista dalle regole e sorpassata, con tempo e tenacia, da chi è stato capace di creare conflitto generativo.
Confliggere nel presente
Negli attacchi al “ribellarsi” della CGIL di Maurizio Landini, nelle parole dei ministri che invitano a condannare il fermento sociale che segue violenze di polizia nel nome della legge, nelle stesse proposte di legge in cui l’occupazione abitativa diventa un reato penale con il carcere come deterrente, fino a 7 anni, o dove manifestare sarà un rischio da galera, in tutte queste occasioni paradigmatiche osserviamo l’intento di normalizzazione, di soffocamento, di ordine che impedisce ogni forma di trasformazione. In un secolo che si è lasciato alle spalle la lunga storia di ribellione armata o di guerriglia fondata su ragioni e motivazioni politiche, persiste un giudizio e la costruzione di un sentimento sociale, guidato, che elimini il più possibile l’anomalia, il pensiero alternativo che porta per forza di cose al conflitto. Siamo individui schiacciati dall’individualismo e invitati a vivere in bolle che chiamiamo social. Se a nostra volta non saremo capaci di confliggere nel nostro presente, il rischio è quello di una normalizzazione capace di evocare solo ricordi e memorie.
Fonti
[1] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia (Einaudi, 1984)
[2] Miguel Benasayag e Angélique del Rey, Elogio del conflitto (Feltrinelli 2018)
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