Non c’è transizione senza giustizia sociale

Un’intervista a Benedetta Scuderi

 


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Quali sono le sfide che dovrà affrontare l’Unione europea per continuare la transizione ecologica?

Abbiamo bisogno di investire molti soldi nella transizione e dobbiamo capire come reperire le risorse necessarie e favorire gli investimenti, in un periodo storico dove diminuisce l’investimento pubblico e aumenta la tendenza all’austerità. Questa incertezza si traduce in un’incapacità di attrarre investimenti da parte dei privati che, a fronte di questa difficoltà, riducono il loro impegno. Così però si rischia la paralisi perché è chiaro che l’unica strada possibile per il progresso è quella della transizione. Il rischio è che non si vada né in una direzione né nell’altra, finendo – di nuovo – per essere sommersi, come abbiamo fatto negli ultimi tre anni, dai paesi terzi che invece stanno fiorendo in svariati mercati che per noi sarebbero il futuro. Ci sono poi i costi: come riusciamo ad abbassare i prezzi dell’energia, che sono il grande ostacolo allo sviluppo industriale dell’Europa? La soluzione sta nell’aumento delle rinnovabili. Dove le rinnovabili non vengono sfruttate, come sul territorio italiano, che paradossalmente sarebbe molto favorevole, i prezzi dell’energia sono altissimi e di conseguenza la produttività si abbassa. Infine, l’enorme questione della giustizia sociale, cioè di come orientiamo verso la transizione non solo i settori industriali, la produzione e i servizi, ma anche le persone. La partita da giocare è in primo luogo quella delle competenze e di nuovo si tratta di fare investimenti soprattutto per le fasce più vulnerabili che hanno più bisogno di essere sostenute e accompagnate. 

 

Quanto pesano il contesto geopolitico e le guerre alle porte dell’Europa sulla transizione?

Sicuramente il contesto geopolitico è un ostacolo, non solo alla transizione, ma più in generale a una qualsiasi capacità di reazione e visione europea. Ricordiamoci che se non c’è vita senza un pianeta, non c’è un pianeta senza pace. Rischiamo di precipitare in una nuova epoca di conflitti, che molto facilmente potrebbero diventare mondiali fino a scatenare guerre nucleari. Il rischio è sempre dietro l’angolo e questo scenario non solo non porterà alla transizione, ma porterà a una possibile estinzione del genere umano, o comunque sia a carestie, fame, impennate dei tassi di mortalità. Dobbiamo lavorare per una prospettiva di pace, che non significa mandare più armi, ma cercare di avere un ruolo effettivo di costruttore di pace, motivo per cui l’Europa è nata.Purtroppo c’è anche un’altra via, su cui mi pare si stia orientando l’Europa, che è quella di un’economia della guerra, dove si investe sull’industria degli armamenti, in una spirale che alimenta i conflitti perché senza la guerra non si ha un ritorno degli investimenti e l’economia collassa. 

Qual è l’approccio ecologista alla transizione?

La transizione è un’opportunità di giustizia sociale. Un danno ambientale è un danno alla salute, un danno economico, un danno sociale. Investire nella transizione significa pagare un costo necessario per i benefici di lungo periodo, anche sociali.  Possiamo fare l’esempio della mobilità: può portare più industria, più lavoro, città più pulite che a loro volta assicurano più salute. Un altro esempio è la casa: la richiesta di case più efficienti genera più lavoro, perché si deve costruire, rinnovare. L’efficientamento consente inoltre una riduzione delle bollette. Meno emissioni portano un beneficio alla salute. Un beneficio individuale e sociale. Questo non è vero al contrario: tante politiche che non guardano alla transizione ecologica, che quindi non sono rispettose dell’ambiente, molto spesso producono danni diffusi. Se noi non ci occupiamo del cambiamento climatico, il cambiamento climatico si occuperà di noi. Parliamo di miliardi e miliardi che saranno a breve triliardi di danni ambientali ed economici. 

Come si pone il Piano Draghi rispetto alla transizione ecologica?

Siamo d’accordo con il piano Draghi sulla necessità di nuovi investimenti, di una transizione sociale accompagnata alla competitività, sul presidio del welfare per i cittadini. C’è una conseguenza del piano su cui non siamo d’accordo: l’austerità che ha come fine la ristrutturazione del debito. Dovremmo, invece, creare un debito comune, un “debito buono”, che vada nella direzione di investimenti per la transizione che poi possono restituire più di quanto si è investito. Questo non è previsto dal piano Draghi, che invece si focalizza sugli investimenti nell’industria delle armi. Per me e per la forza politica che rappresento in Europa, è una posizione molto pericolosa. 

 

L’Unione Europea ha un ritardo da colmare nell’approvvigionamento alle materie critiche. Come può agire in questo senso e cosa si può migliorare? 

Il primo obiettivo è investire sulla circolarità di tutti i materiali, soprattutto dei materiali più critici, il cui estrattivismo è incredibilmente impattante anche perché sono gli stessi materiali che molto spesso hanno una possibilità di essere riciclati infinite volte e una circolarità molto molto alta. Il secondo obiettivo è l’efficienza: meno energia non vuol dire in nessun modo produrre meno o che vogliamo tornare all’epoca della pietra, come ci dicono alcuni colleghi. Semplicemente ci sono tantissime tecnologie che ci permettono di produrre allo stesso modo con meno energia. Questo ci permetterebbe di utilizzare meno materie prime per lo stoccaggio dell’energia, quindi di ridurre l’utilizzo di energia e l’utilizzo di risorse in generale, portando a una mitigazione dell’estrattivismo.

Non possiamo pensare che efficienza e circolarità ci bastino per avere tutte le risorse che ci servono, ma abbiamo bisogno di altre materie prime e implica delle domande sui luoghi e sulle modalità di estrazione. In questo senso, il Parlamento ha un ruolo come istituzione europea sul controllo della trasparenza, sulla sostenibilità dei processi e sul coinvolgimento delle comunità locali che si vedono impattate da questo tipo di processi. La totale esternalizzazione di questi processi a paesi terzi magari è comunque un elemento problematico: dobbiamo iniziare a pensare a come internalizzare anche questo tipo di processi nel modo più sostenibile possibile, partendo sempre dal presupposto che dobbiamo estrarre solo quanto strettamente necessario.

 

L’Italia sta facendo abbastanza?

Ci sono alcuni ambiti, come l’’economia circolare, in cui siamo molto avanti riuscendo effettivamente a essere dei pionieri della circolarità. La tecnologia del riciclo delle batterie al litio, una delle più efficaci, è stata sviluppata in Italia. Poi ci manca l’implementazione. Abbiamo l’intuizione però poi non riusciamo a far fruttare le nostre stesse capacità, a causa dell’incredibile scarsità di investimenti in ricerca e innovazione. Sulle energie rinnovabili siamo molto indietro rispetto a quello che potremmo fare per un insormontabile muro burocratico, che impedisce di velocizzare questo tipo di processi, ma anche per un fortissimo approccio top-down, per cui non si ascoltano mai le comunità locali e non c’è una buona condivisione dei benefici. Sull’efficientamento degli edifici privati siamo messi malissimo: abbiamo uno dei rating di inefficienza più alti d’Europa: siamo sopra il 60% degli edifici privati sotto la soglia della classe energetica F o E. 

 

La parola “transizione” non è stata capita a pieno dall’opinione pubblica. Soprattutto perché ha un costo, come è evidente dal conflitto generato dal regolamento e le emissioni inquinanti delle auto o dal regolamento sulle classi energetiche degli edifici. Chi paga la transizione? Come renderla più democratica?

E’ stata una scelta politica molto chiara quella di annunciare una transizione e non metterci abbastanza soldi, fissare delle norme senza una pianificazione. Significa presentare un progetto debole, esposto a critiche e revisioni.
Le conseguenze di una transizione senza le giuste risorse ricadono a cascata sui consumatori finali, che di solito sono anche quelli più vulnerabili e con meno capacità di adattarsi.
Per quanto ci riguarda, dovrebbe pagare chi è più responsabile: l’industria del fossile, le grandi aziende che inquinano, gli speculatori. Una giusta transizione dovrebbe essere finanziata dagli extra profitti energetici, ma anche dagli extra profitti bancari. Le risorse esistono, ma sono nelle mani di pochissimi: l’1% della popolazione ha lo stesso impatto dell’altro 90%. Chi produce più impatto e ha maggiori risorse deve assumersi i costi più significativi della transizione.

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