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Il desiderio di un guscio |

Il lemma razza è tornato tra noi? Riflessioni intorno al saggio “Il ritorno della razza” dello storico Andrea Graziosi


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Il termine razza

Il lemma razza è tornato tra noi? Lo storico Andrea Graziosi, che a gennaio 2025 ha pubblicato un libro dal titolo Il ritorno della razza (il Mulino), ne è convinto.

Ci sono molte cose su cui ci sarebbe da discutere intorno alle riflessioni proposte da Graziosi. 

Per esempio l’uso stesso del termine, su cui Graziosi mi pare non tematizzare con chiarezza. In questo senso, credo non sarebbe sbagliato assumere alcuni paletti anche concettuali, una preoccupazione su cui più volte sono intervenuti in questi anni Guido Barbujani e Lino Leonardi.

Il primo, Guido Barbujani, quando sottolinea nel suo L’invenzione delle razze (Bompiani) che “le differenze tra noi sono dovute a fattori genetici, in parte a fattori ambientali o culturali, ma sono essenzialmente differenze tra individui, non fra gruppi razziali separati da barriere”. Da qui il fatto, secondo Barbujani, che l’uso della parola razza è significativo della mentalità che testimonia ovvero di ciò che è spia indiziaria indicando come due siano gli elementi su cui preliminarmente conviene lavorare: da una parte il fatto che con razza intendiamo (meglio sottintendiamo) identità genetica, ovvero parliamo di un’identità immutabile, data dalla nascita e perpetua nel tempo; dall’altra il fatto che nell’uso sociale della parola razza la tendenza è stabilire una distinzione tra chi possiamo fidarci e di chi non dobbiamo fidarci.

Il secondo, Lino Leonardi, nel suo recente Razza. Preistoria di una parola disumana (il Mulino), in cui sottolinea come sia tornare a riflettere sulla preistoria della parola, e dunque sulla sua costruzione. Leonardi è convinto che non serve abolire la parola, bensì sia essenziale depotenziare e annullare le conseguenze della sua evocazione. O forse meglio la sua stessa macchina generativa.

Mi sembra un’indicazione preziosa quella di lavorare sulla macchina generativa come dispositivo più che da smontare da sorvegliare proprio per non consentire la crescita e la costruzione di un profilo culturale che tende ad accreditarsi come “ovvio”, meglio come “naturale”. 

Partendo dall’età antica e giungendo ai nostri giorni, Graziosi traccia il percorso che ha portato al razzismo e alla storia come lotta tra i popoli, fino ai conflitti e ai genocidi del XXI secolo. 

L’anno di svolta, sostiene Graziosi, è il 1972 quando in Europa il tasso di fecondità scende sotto quello della riproduzione naturale. Iniziano flussi migratori, le città “si colorano” [Il ritorno della razza (il Mulino), p. 15]. 

L’effetto è un forte spostamento verso opinioni securitarie, quando non autoritarie, dell’opinione pubblica europea.

Andrea Graziosi, dunque, propone molti temi nell’agenda. Temi su cui vale la pena riflettere con attenzione. Sono dell’avviso, però, che occorra mettere in campo anche altri fattori che mi sembrano lasciati al margine dalla lettura che propone Graziosi. 

Propongo tre punti diversi che fondano lo smarrimento da cui la scelta di percorrere la strada verso la razza come ipotesi rifugio.

L’accoglienza dopo il crollo del Muro di Berlino

Primo punto. Il facile entusiasmo con cui abbiamo pensato l’accoglienza all’indomani del crollo del Muro di Berlino. È un tema su cui a inizio anni ’90 ha invitato a riflettere, in solitudine e controcorrente, Hans Magnus Enzensberger nel suo La grande migrazione. Propongo un passaggio che allora fu scritto con ironia, ma che oggi forse possiamo leggere come un’analisi consapevole dell’incoscienza pubblica.

In nessun altro paese – scriveva Enzensberger – si apprezza la retorica universalistica quanto qui in Germania. La difesa degli immigrati si presenta come un habitus moralizzante che quanto a presunzione non lascia nulla a desiderare. Slogan come ‘Stranieri, non lasciateci soli con i tedeschi!’ o ‘Mai più Germania’ sono espressione di una farisaica inversione dei poli. Il cliché razzista appare in negativo. Gli immigrati sono idealizzati secondo uno schema che ricorda il filosemitismo. Se spinto abbastanza in , il rovesciamento del pregiudizio può arrivare fino alla discriminazione della maggioranza. L’odio per se stessi viene proiettato sugli altri, ad esempio con la menzognera affermazione ‘Io sono uno straniero’, con cui si sono messi in vista molti tedeschi che si considerano illustri” [ivi, pp. 38-39].

Il ripiegamento verso la razza è anche conseguenza di un “innamoramento deluso” verso un fascino provato per l’”esotico”, che testimoniava già allora un tasso superficialità, se non presunzione, da parte di chi riteneva che la storia comunque lavorava per le “magnifiche sorti progressive” di cui si sentiva legittimo rappresentante.

Galba, Niente meticci, ‘Il 420’, XXII, 1129, 2 agosto 1936, Firenze, p.7 da La menzogna della razza, Grafis Edizioni 1994, p.158

La percezione degli “stranieri alle porte”

Secondo punto. La percezione degli “stranieri alle porte”. È Zygmunt Bauman a descriverne tre elementi strutturali. Per la precisione: 

  1. Ci percepiamo come vittime della realtà che non sappiamo governare, in cui ci descriviamo come attori passivi, “situazione che non siamo stati noi a creare, né possiamo controllare” [Bauman Stranieri alle porte, p. 9].
  2. Costruire la sicurezza come chiusura [Stranieri alle porte, p. 22] un sentimento su cui peraltro Bauman aveva già insistito all’inizio dell’anno 2000, quando scriveva con lucidità, non senza sarcasmo:

“Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa spiacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una”

Per poi concludere:

“Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile”

E aggiungere:

“Il problema è che la ricetta con cui vengono realizzate le ‘comunità realmente esistenti’ non fa altro che // rendere la dicotomia tra sicurezza e libertà ancor più acuta e difficile da sanare” [Voglia di comunità, pp. 6-7] 

      1. Erigere barriere [Stranieri alle porte, pp. 29-31] un comportamento su cui torna ad esercitare fascino l’immaginario della frontiera e materialmente del muro come argine.

Come definire l’identità

Terzo punto. Cosa associamo all’immagine “meticcio”, un tema su cui sono tornati a riflettere di recente François Laplantine e Alexis Nouss nel loro Il pensiero meticcio (Eleuthera). 

Un testo in cui meticcio non solo si contrappone alla categoria omogeneo/eterogeneo ma è attraversamento “non indenne” di mondi diversi. Da cui fanno derivare il fatto che la nazionalità non sia più sufficiente per definire l’identità. Il che significa che sia da ridiscutere tutto il paradigma con cui a partire dalla fine del XIX secolo abbiamo spiegato l’identità e la nazione, ovvero il modello culturale, emozionale e di immaginario proposto, per esempio da Ernest Renan nel suo Che cos’è una nazione? 

Il problema del meticciato non è un pacchetto di identità, ma la metamorfosi simbolica e i processi di adattamento/distinzione che si mettono in pratica.

La pratica dell’anti meticciato si basa su due principi apparentemente opposti, ma in realtà reciprocamente finzionali: quello della separazione e quello della fusione. 

L’idea, in tutte e due i casi, è la lotta alla contaminazione, ovvero la perdita e l’allontanamento dall’originario. Perciò quello che oggi viviamo – affermano Laplantine e Nouss – non è solo una crisi indotta dalla separazione ma anche e insieme il rimpianto di una unità primigenia perduta. Un rimpianto che hanno tanto quelli che qui vedono arrivare gli stranieri (riprendendo l’immagine di Bauman) quanto coloro che arrivano che non sono meno ossessionati dell’identità di quanto non lo siano gli autoctoni. 

I frutti puri impazziscono. Un meccanismo complesso che James Clifford aveva messo fuoco quarant’anni fa, ma con cui dobbiamo ancora prendere le misure.

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