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Rifondare un noi collettivo


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La nostra storia comincia da quella che Francis Fukuyama interpretava come la “fine della storia”. Siamo agli inizi degli anni Novanta, il Muro di Berlino è caduto e sotto le sue macerie pare essersi sgretolata anche la contrapposizione tra est e ovest: l’economia di mercato di stampo occidentale ha soppiantato l’economia pianificata dei regimi comunisti e la globalizzazione si profila esultante.

Passa meno di un decennio e la grande illusione comincia a mostrare i suoi limiti: la torsione verso un neoliberismo sempre più spinto produce gravi crisi valutarie, lunghi periodi di stagnazione, fino al collasso di interi sistemi economici, senza che la globalizzazione dei mercati si traduca in una globalizzazione dei diritti.

Gli anni Venti di questi anni Duemila ci consegnano un mondo in cui la disuguaglianza tra Paesi e tra gruppi sociali si è aggravata fino a rappresentare il più grande scandalo della nostra epoca.

Ci troviamo, oggi, più soli e impoveriti. Spesso nostalgici e via via più isolati. Come ha scritto Lucio Caracciolo, oggi che i conflitti si moltiplicano e le crisi denunciano l’esaurimento di un mondo troppo a lungo depredato, della fine della storia viviamo il rovesciamento: le storie della fine.

E così, si impone un sentimento politico che vuole riprendere il controllo con lo sguardo rivolto al passato, a un mondo che ripristina i confini, scava nuove miniere di carbone, torna a svuotare i granai e a riempire gli arsenali. Venti populisti e conservatori tornano a soffiare sulla rabbia degli esclusi e degli impoveriti.

La destra ottiene consensi in tutta Europa e l’Italia sembra essere un Paese-laboratorio non per capire come ma dove una proposta sempre meno baricentrata sul moderatismo di centro si propone per la prima volta come forza di governo duratura e credibile.

Cosa c’è dall’altra parte? La sinistra vive una crisi profonda: non è riuscita in questi ultimi due decenni a costruire un progetto capace di saldare i ceti medi con la tradizionale rappresentanza dei ceti popolari, di tenere insieme le ragioni dei diritti e quelle di una prosperità economica equa e condivisa.

La competizione fra destra e sinistra è divenuta negli anni una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato e, se si guarda al consenso elettorale in calo, resta la sensazione di una classe politica disorientata, incapace di dare direzione in senso progressista alle grandi trasformazioni economiche e sociali del nostro tempo.

Qualcosa nelle nostre società si è rotto per sempre e non ci restano che schegge di interessi particolari e spesso confliggenti?

Si potrebbe invertire la prospettiva per capire che quei frammenti disgregati e diseguali siamo noi: uomini e donne, bambini e nuove generazioni, persone e forme di vita che insieme possono creare nuovi campi magnetici capaci di rifondare un “noi collettivo”, aprire spazi di contestazione e cooperazione, sperimentare alternative e stringere coalizioni.

Senza attendere la politica, ma giocando d’anticipo. Spetta a quel popolo globale che subisce gli effetti delle devastazioni ambientali, dei divari economici, delle derive illiberali il compito di un contropotere diffuso, condiviso, capace di rivitalizzare le forme della rappresentanza, di rimettere in moto le nostre democrazie, di esaudire le promesse di riscatto sociale e di pari dignità delle persone.

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