1980. L’insostenibile ricerca della sicurezza

approfondimento


Articolo tratto dal N. 38 di Ustica, 45 anni dopo Immagine copertina della newsletter

Gli anni del terrore 

Il giorno in cui DC9 di Itavia decollò dall’aeroporto di Bologna diretto verso Palermo, il 27 giugno 1980, il Presidente francese Valery Giscard d’Estaing aveva annunciato la nascita della bomba N «made in France». Il frangente non era casuale. A cavallo tra il 1978 ed il 1979 le tensioni internazionali avevano ricominciato a emergere prepotenti, dopo un periodo di significativo miglioramento delle relazioni tra i due blocchi, sovietico e statunitense.

Gli scenari extra-europei si erano scompensati a causa delle crisi del Corno d’Africa (la guerra civile angolana e il conflitto somalo-etiope), l’invasione vietnamita della Cambogia ed il primo confronto tra due Stati comunisti, Cina e Vietnam. Il confronto sugli armamenti non era certo da meno. Dopo l’installazione dei missili SS-20 da parte sovietica, nel 1977, si iniziò a vagliare tangibilmente la possibilità di collocare i cosiddetti euromissili in alcuni Paesi del blocco atlantico, come l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca, decisione che generò un trasversale fronte di dissenso da parte delle popolazioni locali.

Militari americani in Vietnam

Alle soglie degli anni Ottanta 

Non da ultimi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel dicembre 1979, e l’emergere della rivoluzione iraniana, guidata dall’ayatollah Ruhollah Khumayni, meglio conosciuto in Occidente come Khomeini, spazzò via il corrotto regime filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi, imponendo un nuovo attore globale: l’Islam politico.  

Anche il Mediterraneo scontava le proprie fatiche. Le relazioni franco-libiche, in particolare, parevano compromesse dalla fattiva collaborazione francese ai vari tentativi di un colpo di Stato contro Gheddafi, sviluppatisi nel corso del 1979, come ha di recente ricostruito Bruna Bagnato. Un degradarsi delle relazioni che toccò il proprio apice nel febbraio 1980 quando, dopo che alcuni manifestanti diedero fuoco all’ambasciata di Francia a Tripoli e al centro culturale a Bengasi, il governo francese decise di ritirare il proprio ambasciatore, sancendo un’importante crisi diplomatica.  

l’ayatollah Ruhollah Khumayni

L’inizio del terrorismo

Contestualmente a questi avvenimenti, un’ondata di terrorismo internazionale parve travolgere le società occidentali. A cavallo tra i due decenni gli attentati terroristici internazionali conobbero un aumento significativo:

nel solo 1981 si ebbe un incremento del 20% rispetto all’anno precedente. Teatro principale era sempre il medesimo: l’Europa occidentale, con la concentrazione del 44% degli incidenti in 14 Paesi, fra i quali l’Italia, stretta da diverse minacce di origine terroristica. Quella interna, da un lato, con la scia di sangue lasciata dagli attentati dell’estrema sinistra e dall’attacco da parte dei neofascisti che sarebbe venuto di lì a poco, con la strage di Bologna, il 2 agosto 1980.

Quella internazionale, dall’altro, di origine palestinese, armena e libica. L’Italia, infatti, era divenuta uno dei terreni di attuazione della strategia del raís libico Muammar Gheddafi: nel corso del 1980 aveva preso piede una campagna mirata, secondo le autorità di pubblica sicurezza, «al rientro in patria dei residenti all’estero»; una campagna che si traduceva spesso, tuttavia, nell’eliminazione di dissidenti politici in Europa e in Italia, in particolare.

Omicidi selettivi compiuti in alberghi ma anche in luoghi pubblici, come per il caso di Azzedine Lahderi, freddato a colpi di pistola nell’atrio della stazione centrale di Milano, in pieno giorno. Ovvio che la questione ponesse un problema di sicurezza nazionale e internazionale.

Moammar Khadafi

La risposta dello stato?

Da un lato, le autorità del ministero dell’Interno dovevano garantire la sicurezza sul suolo della penisola; dall’altro, come ha ricordato l’ammiraglio Martini, a capo del SISMI dal 1984 al 1991, i rapporti con i libici erano caratterizzati da relazioni di natura personale («di doppio binario»), più che istituzionali. Relazioni particolarmente strette, che rendevano l’Italia un territorio impervio per lo sviluppo del dissenso libico. E un territorio protetto per la realizzazione di assassinii politici degli oppositori di Gheddafi. Non solo.

Dopo la strage dell’aeroporto di Fiumicino del 1973, l’Italia aveva stretto un tacito accordo con la Libia: mentre le responsabilità di Tripoli rispetto alla connivenza con gruppi terroristici arabo-palestinesi venivano messe sotto il tappeto, l’Italia sviluppava una stretta cooperazione economica ed industriale con la Libia, sperando così di disincentivare Gheddafi nello sviluppare ulteriori azioni terroristiche contro il territorio italiano.

Armi e petrolio, dunque. Ma non soltanto. L’intento dell’Italia era quello di creare un sistema di sicurezza che fosse funzionale al mantenimento di un equilibrio sulla sponda sud del Mediterraneo e in seno allo stesso territorio nazionale, ponendolo al salvo da altre azioni terroristiche eterodirette. In altri termini, si cercava di garantire la sicurezza economica e sociale del Paese, scendendo a patti con uno Stato ritenuto responsabile di atti di terrorismo internazionale sul nostro suolo.

Portò a tentare di tutelare il regime libico contro ogni ragionevolezza; anche quando – ad esempio – i membri della Comunità economica europea proposero di adottare un’azione comune nei confronti di Gheddafi per la campagna di omicidi contro i dissidenti libici all’estero o, ancora, nel 1986, quando gli Stati Uniti decisero di bombardare Tripoli e Bengasi come ritorsione per un attentato di matrice libica compiuto a Berlino ovest. 

Decisioni che sono costate all’Italia una posizione internazionale talvolta faticosamente sostenibile nel quadro europeo. E, ancor peggio, l’onta delle oscure ombre che si sono allungate su stragi oggetto di depistaggio, o che sono rimaste senza colpevoli. 

Foto dell’aereo della strage di Fiumicino dopo lo scoppio della bomba

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