Due citazioni per partire:
La prima. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia; è anche un uomo che dice sí […] Lo spirito di rivolta è possibile solo nei gruppi in cui l’eguaglianza teorica nasconde grandi disuguaglianze di fatto. Mi rivolto, dunque siamo”.
La seconda. “Per quanto esecrabile, l’odio è un sentimento, un’emozione che non può essere represso nell’aula di un tribunale. […] Rivendico a gran voce il diritto all’odio e al disprezzo, e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute”
La prima: sono le parole con cui Albert Camus inizia il suo L’uomo in rivolta.
La seconda è uno dei passaggi de Il mondo al contrario di Roberto Vannacci.
Circa ottanta anni la distanza tra i due testi. La prima si è fatta strada con difficoltà nel senso comune (e ancora oggi risulta di difficile accoglienza, comunque diffidente). La seconda è diventata virale. Non c’entra la chiarezza, c’entra la condizione in cui viviamo in questo nostro tempo.
Odio ergo sum.
Perché questa dimensione emozionale ha acquistato facilmente il senso comune come se improvvisamente quello che a lungo non era lecito, è diventato legittimo? Perché l’odio ha facilmente conquistato i cuori e le emozioni?
Un primo dato riguarda come noi viviamo il tempo presente.
L’odio non è una novità. Una pista del Novecento è stata inaugurata da un giovane ventenne, in solitudine a Torino in tempo guerra. Il suo nome è Antonio Gramsci.
È l’11 febbraio 1917 Esce un giornaletto – il titolo è la Città futura” che Gramsci compone e scrive da solo. L’editoriale inizia così: “Odio gli indifferenti”. Quel sentimento è un grido al presente per pensare un futuro diverso, condiviso e soprattutto è per mettere un muro alla nostalgia del passato.
A lungo negli ultimi anni lo abbiamo gridato nel nome del richiamo all’impegno. Poi nel tempo, come tutte le cose che si consumano, è rimasta solo la prima parola. Perché? Forse perché nel frattempo anziché progressi si sono accumulate le delusioni o forse perché facendo il bilancio del tempo, la sensazione era la propria impotenza nel tempo presente. Pensiamoci un attimo: ii nonni, i bisnonni degli attuali ventenni hanno vissuto, almeno in questa parte di mondo, una storia di ascesa sociale, i loro vecchi erano sulle loro spalle – come Enea in uscita da Troia – e potevano permettersi molte cose rispetto alla loro situazione di partenza. Un ventenne oggi può dire lo stesso? Non discende da qui l’idea che il futuro sia solo “truffa”?
Cambiamo il punto di vista.
Consideriamo il mondo in cui Camus scrive.
Usciti da una catastrofe come quella bellica, pur in condizioni di miseria o di prostrazione lo sguardo era necessariamente avanti. Non avevamo più un passato da rimpiangere, il presente era estremamente disagevole, ma avevano una voglia di futuro. Soprattutto avevamo la certezza di avere diritto ad averne uno. Essere usciti dal cono d’ombra della guerra voleva dire, anche occupandosi di «pane e lavoro», non dimenticare l’impegno per darsi un’anima, trovare un fondamento, darsi un futuro.
Non perché qualcuno ce lo doveva, ma perché voler essere protagonisti voleva dire prendere in mano le proprie sorti e provare a cambiare il presente.
Ora consideriamo la prospettiva che si apre con Roberto Vannacci.
Maturare l’odio, coltivarlo vuol dire osservare il presente come una tirannia, o uno «scherzo malvagio». Non si tratta di migliorarlo, ma come nelle fiabe, l’obiettivo è restaurare l’ordine infranto da pessimi figuri.
L’azione che nasce dall’odio non mira a dare concretezza a un’idea di futuro, Coltiva la nostalgia del passato a cui vuol dare una chance. Ovvero far fare al passato un nuovo giro di roulette
Rimettere il mondo nel verso giusto, non vuol, dire rimetterlo in piedi, ma «restaurarlo», ritenere che la condizione attuale sia il risultato di un “pessimo scherzo” o di un complotto che ci ruba la vita. L’obiettivo è di andarla a riprendere e rimettere le cose al loro posto.
La convinzione è che occorra ristabilire un ordine perduto. Non siamo forse usciti dalla «clausura» da COVID con rancore mischiato a timore? Non volevamo futuro ma solo ritorno al passato. Quel tempo della “malattia” era da dimenticare.
Dalle crisi, invece, si esce prendendo la misura della condizione falsa in cui si svolgeva la vita fino a un attimo prima dell’epidemia. È questa la lezione che ci invia José Saramago, con le parole che fa pronunciare alla moglie del medico nella pagina conclusiva del suo Cecità, quando dice: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che pur vedendo, non vedono”. È la stessa lezione su cui aveva insistito Albert Camus con La peste. La differenza tra prima e dopo nasce dell’impegno delle persone ad assumersi la responsabilità nel presente. Non a rimettere a posto le cose, bensì a riprendere la misura, nuovamente, delle sfide di questo tempo e provare a ricominciare sulla base di un nuovo contratto. Senza perdere tempo a fare false sceneggiature. Come a Dubai, per esempio.
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a cura di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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