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La guerra ibrida: tra pressioni economiche e ingerenze non militari


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Pubblichiamo qui la traduzione italiana a cura di Caterina Di Fazio del testo che il filosofo francese Étienne Balibar ha scritto per «Philomag magazine».


In una situazione di incertezza così tragica e mutevole, occorre prendere una posizione inequivocabile. O almeno si deve provare. Il filosofo, cui talvolta attribuiamo intuizioni speciali, non si trova nella miglior posizione per farlo. Perché, da un lato, il filosofo non ha alcun privilegio: è un cittadino tra gli altri, chiamato come loro a rispondere all’emergenza, a cercare di informarsi per scegliere il suo campo nelle “controversie” politiche. Pensiamo al decreto di Solone (VII-VI secolo a.C.) che bandisce chiunque pretenda di rimanere neutrale nei conflitti della città… Ma d’altro canto, la sua “vocazione” comporta una sorta di dovere di funzione diciamo “parresiastico”, che è quello di dissentire o differire all’interno del proprio campo, al fine di individuarne i punti ciechi. E questi non mancano mai: senza essere esaustivo, azzardo quindi alcune “complicazioni”:

Uno: Dirò innanzitutto che la guerra degli ucraini contro l’invasione russa è una guerra giusta, nell’accezione più forte del termine. So bene che questa categoria è dubbia, e che la sua lunga storia in Occidente (da Sant’Agostino a Michael Walzer) non è esente da manipolazioni o ipocrisie, né da illusioni disastrose, ma non me ne viene in mente nessun’altra che possa convenire, e la riprendo aggiungendo però le seguenti precisazioni: la guerra “giusta” è una guerra per la quale non basta riconoscere la legittimità della parte di coloro che si difendono da un’aggressione (un criterio del diritto internazionale), ma in cui occorre impegnarsi al loro fianco; ed è una guerra in cui anche coloro (tra i quali io stesso) per cui qualsiasi guerra (o qualsiasi guerra oggi, allo stato attuale del mondo) è inaccettabile o disastrosa, non hanno tuttavia la scelta di rimanere passivi. Perché la conseguenza sarebbe ancora peggiore. Non provo dunque nessun entusiasmo, ma scelgo: contro Putin.

Due: Tale quale si sta sviluppando sotto i nostri occhi, la guerra in Ucraina (e quindi in Europa: l’Ucraina, la Russia sono nazioni europee) ha due facce. Ha due caratteristiche. Si tratta, localmente, di una guerra “totale” contro un popolo che il pericolo di annientamento ha mobilitato in un’unità patriottica che cancella le sue tradizionali divisioni, una guerra di distruzione e terrore condotta dall’esercito di un paese vicino più grande e potente, che il suo governo vuole arruolare in un’avventura imperialista senza possibilità di ritorno. Ma è anche, più in generale, una guerra “ibrida” in cui questo stesso vicino, con alcuni alleati sparsi per il mondo, dagli interessi e principi molto eterogenei, affronta il resto dell’Europa (di cui facciamo parte), che è anche il distaccamento avanzato della NATO, cioè di un’alleanza militare ugualmente imperialista, sopravvissuta di un’altra epoca ma che attualmente non si può lasciare. Questo confronto avviene sul terreno degli armamenti, della mobilitazione delle truppe, delle comunicazioni e dell’informazione, ma soprattutto delle pressioni e contropressioni economiche, che appaiono al cuore della guerra moderna. Più durerà, più, sembra, questi due aspetti diverranno inestricabili. Ognuno imporrà all’altro la sua “logica”, la sua “logistica” e la sua durata propria.

Tre: Non si può che essere terribilmente pessimisti quanto agli sviluppi futuri (io lo sono), il che significa che le possibilità di evitare il disastro sono minime. Per almeno tre ragioni. In primo luogo, l’escalation è probabile, soprattutto se la resistenza all’invasione si prolungherà nel tempo, e potrebbe non fermarsi alle armi “convenzionali” (il cui confine con le “armi di distruzione di massa” è diventato molto sfumato). Come guerra “totale”, essa completerà, sotto i nostri occhi, la distruzione di un paese, di una civiltà. Come guerra “ibrida”, avrà costi giganteschi nel mondo intero (per esempio in termini di risorse alimentari per le popolazioni del Nord e soprattutto del Sud). In secondo luogo, se la guerra porta a un “risultato”, sarà ad ogni modo disastroso: se Putin raggiunge i suoi obiettivi, evidentemente, per via dell’annientamento del popolo ucraino e dell’incoraggiamento apportato ad altre simili imprese; se è costretto a fermarsi o a ritirarsi, per il ritorno alla politica dei blocchi in cui il mondo si fossilizzerà. In entrambe le ipotesi, per l’esplosione del nazionalismo e dell’odio in cui sprofonderemo per molto tempo. In terzo luogo, infine, perché la guerra (e le sue conseguenze) ritardano la mobilitazione del pianeta contro la catastrofe climatica e contribuiscono persino a farla precipitare, quando si è già perso troppo tempo.

Quattro: La guerra crea una situazione politica completamente nuova in Europa e per l’Europa, vale a dire per la sua “costituzione” e la sua “costruzione”. L’aspetto che viene maggiormente sottolineato è il rafforzamento dall’alto della coesione statale, in particolare attraverso la militarizzazione dell’Unione e la ripresa del dibattito sulla sua “sovranità”. A ciò si aggiungono dibattiti tutt’altro che conclusi sull’interesse o meno di procedere immediatamente ad “allargamenti” in una situazione di eccezione: si tratta di una garanzia di sicurezza oppure no, e per chi? Una forma di escalation? Ma ce n’è un altro, altrettanto decisivo in ultima istanza: quello che determina l’afflusso di rifugiati ucraini sul territorio dell’UE, senza precedenti dagli spostamenti di popolazione all’indomani della Seconda guerra mondiale. Si tratta qui, e su scala ancora più larga, di quello che avevo chiamato nel 2015 (quando la cancelliera Merkel prese la decisione, sola contro tutti, di accogliere i rifugiati dalla Siria) un “allargamento demografico” dell’UE. Poiché il territorio ucraino (e in particolare le città rase al suolo dall’aviazione) diventa inabitabile, questi milioni di rifugiati non torneranno presto “a casa”. Dovranno quindi essere “a casa” anche nell’UE. Le attuali misure di emergenza sono un primo passo, ma ce ne dovranno essere altri. O, per dirla in un altro modo: l’Ucraina è già entrata in Europa in pratica, attraverso una frazione della sua popolazione “in esilio”. La frontiera si è spostata verso ovest. Resta da trovare la formula istituzionale per questa integrazione…

Cinque: Un grande pericolo – forse il principale, se consideriamo quello che Clausewitz chiamava il “fattore morale” della guerra – sta nella tentazione di mobilitare l’opinione pubblica che, giustamente, è solidale con gli ucraini, sotto forma di una russofobia, di cui scorgiamo qua e là i sintomi, alimentata da una pseudo-conoscenza della storia russa e sovietica, e dalla confusione volontaria o involontaria tra i sentimenti del popolo russo e l’ideologia dell’attuale regime “oligarchico”. Domandare di sanzionare o boicottare gli artisti, le istituzioni culturali e accademiche i cui legami con il regime e i suoi leader sarebbero comprovati, è un’arma scontata (anche se si dovrebbe osservare senza compiacenza il grande divario che sta crescendo tra gli inviti intransigenti al boicottaggio culturale e la realtà dei compromessi che si continuano a fare nel campo delle “sanzioni economiche”, in particolare per quanto riguarda gli acquisti di gas e il loro finanziamento). Ma stigmatizzare la cultura russa in quanto tale è un’aberrazione, se è vero che una delle rare possibilità di sfuggire al disastro sta nell’opinione russa stessa. E chiedere ai cittadini di uno stato di polizia di “prendere posizione” se vogliono continuare ad essere accolti nelle nostre “democrazie” è un’oscenità.

Sei: Tutte le complicazioni “filosofiche” che si potrebbero introdurre (e ce ne sarebbero altre), sia in una prospettiva a breve termine sia in ottica di lungo termine, non possono però oscurare l’urgenza. Ora, l’urgenza, l’imperativo immediato, è che la resistenza ucraina rimanga ferma, e che a tal fine sia e si senta realmente sostenuta dalle azioni e non solo dai sentimenti. Quali azioni? È qui che inizia il dibattito tattico, il calcolo dell’efficacia e dei rischi, della “difensiva” e dell’“offensiva”. Qualsiasi forma di impegno in una guerra volta a influenzarne il corso non è una tattica intelligente (un’altra delle formule di Clausewitz che ci torna in mente: la direzione della guerra è “l’intelligenza dello Stato personificata”…). Gli esempi di tattiche che possono far precipitare la sconfitta abbondano – o peggio – ma l’intelligenza non sta nell’aspettare e vedere. Wait and see non è un’opzione.


Foto di Mathias P.R. Reding da Pexels.

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