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Sulla crescente voglia di muri


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In occasione dello spettacolo teatrale Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande, pubblichiamo alcuni pensieri del giornalista e scrittore scomparso nel novembre 2017. Riflessioni sul concetto di frontiera, cittadinanza e diversità ancora più necessari in un mondo dove le barriere fisiche e ideologiche stanno tornando in cima alla lista delle priorità di governi e opinione pubblica.

Dopo il tiepido ottimismo dei primi anni Novanta su un mondo sempre più lontano dal concetto di frontiera, questo sta tornando con forza, se non con violenza, a imporsi nell’immaginario collettivo. I muri, le linee fisiche di separazione tra gli Stati e all’interno degli stessi Paesi si moltiplicano dal Nord al Sud del Pianeta. Un fiorire di barriere che alimentano l’ingiustizia, a partire da quella che decide il destino di un essere umano a seconda del lato del muro in cui nasce.

I recenti fatti di cronaca dei migranti morti nel tentativo di attraversare il confine tra Marocco e Unione europea nell’enclave spagnola di Melilla o tra Stati Uniti e Messico in Texas sono solo gli ultimi di una lista di cui forse abbiamo anche perso la volontà di tenere conto. Nella nostra autoprotettiva indifferenza, i muri continuano così a generare illegalità, discriminazione, e senso di insicurezza, paradossalmente soprattutto tra chi quelle barriere le costruisce per proteggersi.

 

Per questo, il pensiero di Alessandro Leogrande e la sua riflessione sul concetto di frontiera, di cittadinanza e di diversità sono ancora oggi attuali e necessari per risvegliarci dal torpore.

In occasione dello spettacolo teatrale Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande del 1 luglio, riproponiamo un’intervista video su questo argomento di Alessandro Leogrande e un estratto dell’articolo La nuova cittadinanza, pubblicato nel 2017 sul mensile Lo Straniero.

“Alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe operaia e bracciantile straniera nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto).

La classe dirigente italiana (intendendo per classe dirigente non solo la classe politica, ma anche i vertici delle istituzioni e dei ministeri, i giornali, le università, le tv, i sindacati, le grandi aziende, le fondazioni, gli enti pubblici e privati…) è ancora prevalentemente bianca, di madrelingua italiana. Salvo rare eccezioni (la più nota, e allo stesso tempo isolata, è costituita dal ministro dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge) è ancora unicamente bianca, di madrelingua italiana.

Da dove nasce questa differenza profonda dal resto dell’Europa, dalla Francia, dalla Germania, dalla stessa Gran Bretagna che è uscita dall’Ue, dai paesi del Nord Europa? Cosa fa dell’Italia un paese ancora così impermeabile all’apertura verso la società plurale dei propri gruppi dirigenti?

Curiosamente chi parla di “casta”, non sottolinea mai questo aspetto – realmente castale – del potere e del sottopotere nostrani. Era molto più cosmopolita ed eterogenea la composizione delle camicie rosse di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille che non quella di qualsiasi consiglio comunale dalle Alpi alla Sicilia.

Eppure la contraddizione, a volte, emerge. Basta collegare tra loro eventi solo apparentemente distanti. Il movimento che è sceso in piazza in molte città italiane per chiedere una nuova legge sulla cittadinanza che superi gli steccati dello ius sanguinis è fatto soprattutto da ragazzi delle cosiddette seconde generazioni. Dai figli cioè, cresciuti e sovente anche nati in Italia, di chi ha fatto per primo il Grande Viaggio. E, a tutti gli effetti, loro sono “anche” di madrelingua italiana.

Un’altra contraddizione evidente emerge nel lavoro dei campi o nei poli della logistica. Laddove più gravi e “avanzate” sono le forme di sfruttamento lavorativo, più cosmopolita è la composizione di quella che a tutti gli effetti è una nuova classe operaia. Laddove lo sfruttamento poi raggiunge forme ulteriori, è facile constatare come essa sia radicalmente non-italiana. È così nei campi dove si raccolgono le arance o i pomodori. È così per i facchini che lavorano in subappalto per le grandi multinazionali di spedizioni pacchi”.

“Allo stesso modo, in altri versanti, sono ancora scarsamente permeabili i piani alti della politica e della cultura. È difficile dire se nel prossimo decennio la contraddizione raggiungerà il punto di rottura, ma sicuramente essa si acuirà fino ad esigere una trasformazione degli assetti più asfittici della società italiana. Non sarà un percorso facile. Esso sarà costantemente interrotto e osteggiato dalla vecchia Italia, da quel cuore oscuro che teme, quasi con orrore, che il monolite possa essere scalfito.

In fondo, chi come a Goro e Gorino organizza barricate contro l’accoglienza di una decina di donne e bambini è a questa idea di “contaminazione” che si oppone ferocemente (nel XXI secolo!). Ma, se sostenuto, questo percorso potrà aprire le porte a uno scenario diverso. La rappresentanza sindacale sarà ancora più plurale, e il movimento per una nuova legge sulla cittadinanza otterrà i suoi obiettivi. Forse ci saranno più assessori e capiredattori, presidi e docenti, deputati e conduttori di origine non-italiana… Non necessariamente, beninteso, avranno posizioni progressiste, o in linea con una ulteriore maggiore apertura della società italiana.

Alcuni potranno sostenere posizioni conservatrici o populiste, se non addirittura reazionarie, come buona parte della società italiana. Ma, proprio perché ogni società è un organismo complesso, è normale che sia così. Anormale semmai è pensare che esistano dei blocchi ben identificati e immodificabili, e che gli individui siano pedine che vanno a inserirsi dentro caselle prefissate. Poiché negli ultimi anni l’Italia, proprio mentre diventava un paese più plurale, è anche diventato un paese molto più rigido nei processi di mobilità sociale, è giunta l’ora di far saltare il tetto di cristallo. Altrimenti, alla fine del decennio, ci troveremo con un fossato enorme tra le nuove caste e il paese reale”.

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