Non solo ambientalismo
Partiamo dagli anni ’60: in quegli anni assistiamo ad un momento di grande partecipazione politica, non solo per il Sessantotto e quello che ne seguì, ma anche per una presenza attiva di tutta la cittadinanza: tra il 1948 ed il 1979, l’affluenza alle elezioni politiche non calò mai sotto il 90%. In netto contrasto con il 63,91% registrato nel 2022, il dato storico più basso di sempre.
Quella che tuttora rimane è invece la partecipazione “di piazza”, in particolare nei cosiddetti movimenti “ambientalisti”. Partiamo da qui: movimenti come Extinction Rebellion, Fridays for Future e Ultima Generazione non sono movimenti ambientalisti in senso stretto, nonostante li si continui a definire tali. Ambientalismo è un concetto ampio, che va dalla conservazione della natura alle lotte per la terra delle popolazioni indigene. L’ambientalismo in questi movimenti c’è, se corrisponde a giustizia climatica e ambientale; non c’è, se corrisponde a “teniamo pulito il nostro giardino”.
Sacrosanto, se non fosse che il proprio giardino spesso si tiene pulito inquinando quello altrui, il che fa pensare alla famosa massima attribuita a Chico Mendes: “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio“. Eppure, dei tre movimenti citati sopra nessuno fa lotta di classe, o perlomeno non nei termini che abbiamo imparato a conoscere dal marxismo.
Questo potrebbe sembrare (ma non lo è) un appiattimento della posizione politica di questi movimenti, un pensiero poco formato e annacquato, o forse un allontanamento da posizioni più tradizionalmente “di sinistra” (come il pacifismo), che ebbero grande slancio sessanta anni fa.
Il personale è politico
Le motivazioni per cui questi movimenti vedono la politica diversamente dal passato sono sicuramente varie: una su cui riflettere parte sempre da lì, dagli anni in cui il femminismo di seconda ondata cominciò a rivendicare che “il personale è politico”: tutto quello che succede dentro le case, le famiglie, tutto quello che i corpi subiscono o sono costretti a fare è politico.
Ieri come oggi, la politica tradizionale fa fatica a macinare queste riflessioni. Interpretare in questa chiave il distacco di oggi dalla politica partitica ci restituisce una dimensione più ampia della questione. Non è un caso che questo 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, abbia avuto un’affluenza straordinaria, portando in strada mezzo milione di persone solo a Roma.
Non è nemmeno un caso che i movimenti “ambientalisti” siano, da tempo, animati da una maggioranza femminile. Titolo e parti di questo articolo sono scritti volutamente al femminile plurale, per riflettere questo cambiamento, che non va sottaciuto.
Delegittimizzazione
Perché una concezione diversa della politica è difficilmente recepibile da una serie di osservatori, che la scambiano per depoliticizzazione, per apatia, per ingenuità. Si arriva così a chiamare “manipolata” un’adolescente che, all’età di quindici anni, rinuncia alla scuola, e a chiamare “gretine”, stupide, tutte quelle che la seguono. Tutto questo ad opera di uomini adulti che, in risposta a chi protesta con il proprio corpo, reagiscono con termini come “porno-attiviste”.
Una delegittimizzazione che avviene sulla stampa, dove i titoli non mancano mai di fantasia, con grande input da parte della politica istituzionale: “eco-ultrà”, “ambientalisti da loft”, gli “ecoterroristi” e i loro immancabili “blitz”. Senza dimenticarci di ciò che avviene sui social: visitare la sezione dei commenti di Ultima Generazione è un’esperienza forte. Una porzione significativa dei contenuti sono minacce di morte, violenza, tortura. Accanto a questi, compaiono apprezzamenti non richiesti, pubblici o direttamente negli inbox delle attiviste, commenti sull’aspetto, una lunga serie di aberrazioni e molestie che un vasto numero di persone si sente di fare pubblicamente dai propri profili personali.
Una richiesta ferma
Se sono proprio la politica e i media a dare il via agli insulti, a sdoganare l’odio verso le proprie figlie, c’è da chiedersi che cosa abbiano fatto di male. Il crimine è l’ingenuità: un approccio troppo idealista verso la crisi climatica, una distanza astronomica dalla realtà, una velleità di cambiare tutto senza avere capito nulla, di non voler abitare i meccanismi istituzionali e di potere.
Eppure, rimane quella sottile verità che una richiesta ferma, secca, semplice, immutabile, è l’unica rappresentazione degna del terribile ritardo in cui ci troviamo: decenni buttati al vento, che avranno costi umani difficili da anche solo immaginare, che si traducono nell’erosione dei valori costituzionali e nel venir meno dei diritti umani.
È una richiesta che nella sua semplicità riflette anche la necessità di unirsi, di parlarsi, di trovare una dimensione collettiva del cambiamento, uscendo di fatto dai quei meccanismi che ci hanno portato a perdere decenni preziosi (il rapporto Brundtland è del 1987, ma si potrebbe tornare ben più indietro).
I governi hanno fallito
È in quest’ottica che movimenti come Extinction Rebellion dichiarano che “i governi hanno fallito”: perché, di fatto, la politica istituzionale non ha nemmeno cominciato. Non ha cominciato comprendere veramente quali siano le conseguenze indicate nei rapporti IPCC, a internalizzare le conseguenze di una realtà concreta.
Quello che rimane da fare, non volendo accettare la realtà dei fatti, è dunque odiare le attiviste ingenue (e anche gli attivisti ingenui, i “figli di papà” o col reddito di cittadinanza; ma ricordiamo la scelta di usare il femminile), quelle che si fanno sentire, che non credono più alle bugie che “azione immediata significa danneggiare l’economia” o “i lavoratori”, che hanno capito benissimo che la possibilità di realizzare una società della cura diventa sempre più remota.
La conseguenza è che all’interno di questi movimenti si senta forte la necessità di tornare a parlarsi, prima ancora di pensare alle soluzioni, partendo dalle loro strutture interne: si parla di sociocrazia, di facilitazione, di affrontare questioni di genere. Questi approcci sono spesso difficili da comunicare, ma sono propedeutici ed integrali alla riuscita di una transizione degna di tale nome: se Extinction Rebellion chiede un cambiamento che parta dal basso, che sia inclusivo, rappresentativo della popolazione, e che sia il risultato di processi partecipati, non può esso stesso prescindere dal vivere questa esperienza.
Assemblee cittadine
La volontà di superare dinamiche di potere, di andare oltre un sistema di “vincitori e vinti”, è in questo ambito fondamentale per comprendere lo scollamento da una politica partitica che invece insiste sul contrario, sbandierando la propria ricetta per sistemare tutto e mettendo violentemente a tacere i dissidenti.
Tornando al trattamento mediatico delle attiviste, e alla repressione che le colpisce, ci rendiamo conto che la crisi climatica è, anzitutto, una profonda ferita all’interno delle società che abitiamo. La natura collaborativa (il desiderio non di arrivare primi, ma arrivare tutti) è cuore pulsante e visione dei movimenti per la giustizia climatica, che oggi sono sempre più in dialogo con altre lotte della società civile.
Le assemblee cittadine (la terza richiesta di Extinction Rebellion) sono un’espressione concreta della necessità di trovare strumenti di dialogo e di riconnessione. Eppure la domanda più frequente continua ad essere: “D’accordo la crisi, ma voi che soluzione proponete?”.
Culture dell’inclusività e dell’ascolto
È rispondendo a questa domanda (“vogliamo che siano i cittadini e le cittadine a decidere”) che si manifesta l’enormità del compito. Nel 2018 nel Regno Unito, Extinction Rebellion nasceva pensando di portare un’ovvietà: che la distruzione della vita, degli ecosistemi, delle nostre fonti di cibo e di acqua non avrebbe fatto bene a nessuno, e che c’era bisogno di trovare gli strumenti per fermarsi e parlarne.
Passati cinque anni, in cui all’inazione si è aggiunta una vera e propria politica di diffamazione verso l’attivismo, oltre alla già presente componente negazionista, ci viene data la conferma che il lavoro sia molto più grande di quello che si pensava inizialmente. Se anche si prendesse sul serio, ora, l’emergenza, buttandosi a capofitto nelle soluzioni (tecnologiche, economiche, finanziarie che siano) sarebbe difficile non accorgersi che mancano gli strumenti e la cultura dell’inclusività e dell’ascolto, che non nascono dal nulla.
La crisi sanitaria del 2020, nella sua violenza emergenziale, ci ha già mostrato le conseguenze di misure improvvise, prese minuto per minuto, unilateralmente e verticalmente.
Chiediamoci allora quali siano le ragioni per cui la nostra società senta così profonda la necessità di odiare le attiviste “ingenue” e gli attivisti “buoni a nulla”, e potremmo sorprenderci di dove queste domande ci portano, e quanto le risposte siano vicine alla transizione stessa.