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La causa degli algerini, la causa di tutti gli uomini liberi


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Parigi, martedì 17 ottobre 1961.

La questura di Parigi ordina che gli algerini musulmani residenti a Parigi non escano di casa tra le venti e le cinque del mattino. Il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) chiama gli algerini a manifestare pacificamente il loro sostegno alla lotta in patria. Tutti dovevano scendere per le strade contro il coprifuoco, senza nessuna arma. L’invito è a dare una risposta pacifica. La polizia attacca. La Senna nei giorni successivi restituisce al mondo 300 corpi.

Potemmo pensare che quello sia un confronto che riguardi solo la libertà. Lo è, in effetti, ma non solo. Nel confronto tra potenza coloniale e colonizzati si condensano molte altre questioni, forse allora non ancora evidenti ma che i decenni successivi, fino a oggi, hanno riproposto alla politica spesso con drammaticità anche maggiore con cui gli algerini, ora uomini liberi, hanno dovuto riprendere in mano, spesso senza risolverle.

Cominciamo dalla fine.

Il 22 febbraio 2019, la società civile algerina scende in piazza. Per la precisione nelle piazze di molte città. Una reazione di massa, pacifica ma ferma. Dopo la prima manifestazione di fine febbraio, le proteste hanno continuato, sempre con adunate imponenti, senza violenza, ma con propositi quanto mai chiari:

“Dovete andarvene tutti” è stato lo slogan più utilizzato. È la risposta all’annuncio della candidatura al quinto mandato dell’anziano e malato Presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999.

Abdelaziz Bouteflika rappresenta dal 1999 la risposta alla crisi profonda della società algerina, sospesa tra gli eredi politici che rappresentavano gli uomini che avevano guidato il paese dopo l’indipendenza, ma soprattutto dopo la prima crisi del fronte laico e nazionalista che nel 1965 porta all’affermazione dell’autocrazia di Houari Boumédiène (1932-1978). Quel sistema che dura complessivamente da 30 anni entra in crisi nel 1990, quando l’opposizione rappresentata dal Fronte islamico di salvezza (FIS) chiede di governare contro una classe politica che perde sempre più consenso.

Il FIS al primo turno delle elezioni del 1991 ottiene la maggioranza, prime elezioni aperte al multipartitismo. Ma qui il processo si ferma. Negli anni che seguono (1991-1999) l’esercito annulla con un Golpe la vittoria del partito. Il golpe non risolve la questione. Inizia una guerra civile. In otto anni perdono la vita circa 200 mila algerini. È uno scontro che non nasce allora e che ha una lunga tradizione alle spalle.

Per quanto riguarda l’Algeria richiama sia il profilo che le forme politiche che hanno connotato il confronto interno alla realtà coloniale negli otto anni della guerra di liberazione (1954-1962), sia i temi e le questioni che hanno accompagnato l’idea dell’identità algerina dal 1945 in avanti.

All’origine si trovano molti elementi simbolici di un processo emancipativo che non poteva essere ridotto solo al tema della “liberazione”, ma che chiamava in causa molte cose. Tra queste, due sono essenziali: su quali criteri – e poi su quali princìpi (sociale, filosofico, politico, culturale, valoriale) – deve costruirsi un’Algeria nuova non solo liberata dal colonialismo, ma dotata di una identità culturale.

Il tema, dunque, non è solo acquisire la libertà, ma anche ­– nel corso del processo di lotta contro la presenza coloniale – trovare un contenuto in cui si esprima la propria personalità culturale.

È un percorso che nel 1945, immediatamente all’indomani della fine della guerra, delinea un cammino incerto e di disillusione rispetto al riscatto della lotta al fascismo cui molti algerini aderiscono perché consapevoli che quello è un percorso attraverso il quale possono ritrovare, insieme alla Francia occupata, una via di riscatto anche per loro.

Quel proposito si dissolve nel maggio 1945.

Riprendiamo quella scena.

La guerra è finita. Tutti festeggiano. In Algeria una massa di uomini e donne in nome della partecipazione all’esercito della Francia Libera a fianco di Charles de Gaulle, pensando di aver contribuito alla lotta per la riconquistata libertà della Francia, scende in piazza e rivendica il diritto anche alla propria libertà. Sanno che non sarà un percorso facile, ma sono convinti che quella nuova libertà esista anche perché hanno scelto la parte che include quella possibilità.

Nelle piazze di Setif, a 300 chilometri da Algeri, un gruppo di manifestanti chiede la liberazione del leader del Partito Popolare Algerino, Messali Hadj. Tutto si svolge pacificamente fino a quando non viene sollevata la bandiera dell’Algeria, vietata dal governatorato generale francese. Di fronte alla polizia che spara sulla folla, esplode la rivolta degli algerini e al termine della giornata si contano 103 morti francesi. Il conto dei morti non si ferma. Nei giorni successivi: coprifuoco e istituzione della legge marziale, spedizioni punitive, raid aerei contro uomini, donne e bambini costituiscono la quotidianità in Algeria. In poche settimane sono uccisi dai 6 mila agli 8 mila algerini (45 mila nella memoria collettiva algerina).

Quella storia noi non ce la siamo raccontata se non in un film – Hors la loi, di Rachid Bouchareb, presentato al LXIII Festival di Cannes (2010). Ancora oggi, settantasei anni dopo, quella scena non è capace di sfondare il muro di gomma che la circonda.

[Leggi qui il documento: Lettere dalla rivoluzione algerina]

La questione, ovvero come fosse possibile per gli algerini trovare una via della libertà salvaguardando una società che non era solo islamica, ma anche di franco-algerini che si sentivano parte di quella comunità nazionale, era già presente nella piazza politica di allora.

Albert Camus ne scrive su “Combat” nei giorni successivi alle stragi del maggio 1945. Ma già ne aveva scritto nel 1939 nella sua Lettera da Algeri  rivendicando la necessità di una politica che non poteva non assumere come percorso di costruzione di una rinnovata libertà quella sfida. Dunque, non era solo lotta di liberazione coloniale, ma anche fondamento di una nuova società politica da costruire insieme.

[Leggi qui il documento: Albert Camus, La rivolta libertaria. Il partito del manifesto]

Un percorso su cui Albert Camus insiste quando riflette sul fallimento di un modello di società liberata che riprenda il paradigma emancipativo illuministico, che ritorna nella diverse forme di piattaforma politica che connotano il percorso  di definizione negli anni della guerra di liberazione e che spaccano FLN negli anni ’50; che ancora si ripresenta nei mesi della “battaglia di Algeri” nel 1954; che si estremizza nella seconda metà degli anni ’50 e che alla fine si trova irrisolto nell’ultima fase prima che si sancisca la fine della realtà coloniale.

Nello stesso momento cresce la diffidenza, l’ostilità, la violenza da parte della potenza coloniale, delle forze militari, laddove l’assunzione della violenza, della tortura, diviene uno degli elementi per garantire il controllo. Condizione che si accentua con la denuncia documentata di Pierre Vidal-Naquet che presenta nel 1958 la controinchiesta sulla sorte del giovane professore comunista algerino Maurice Audin dichiarato evaso dopo essere stato arrestato dalle forze militari francesi per le sue posizioni politiche, ma in realtà morto sotto tortura nel giugno 1957 in un posto di polizia.

E insieme a questo, diffidenza, estraneità e ostilità separano sempre di più gli attori politici, culturali e sociali che agiscono sul campo.  Ma è anche quella diffidenza a spingere il 6 settembre 1960 i 121 intellettuali a firmare una lettera aperta – documento più noto come il Manifesto dei 121  – che invita il governo francese a riconoscere la guerra d’Algeria come una legittima lotta per l’indipendenza, denunciando l’uso della tortura da parte dell’esercito francese e la richiesta che gli obiettori di coscienza francesi al conflitto siano rispettati dalle autorità.

La Dichiarazione, è redatta, tra gli altri, da Dionys Mascolo, Maurice Blanchot e Jean Schuster Jean-Paul Sartre, André Breton, Marguerite Duras, Claude Lanzmann, Madeleine Reberioux, Simone Signoret, François Truffaut, Vercors, Jean-Pierre Vernant, Pierre Vidal-Naquet. Affermava che la causa degli algerini era la causa di tutti gli uomini liberi e che la lotta stava dando un colpo decisivo al colonialismo.

[Leggi qui il documento: “Tempo presente” settembre-ottobre 1969]

Quel testo simbolicamente segna una lotta per la libertà che a partire dalla fondazione stessa della rivista “Les Temps Modernes” – e soprattutto dall’editoriale sul ruolo pubblico degli intellettuali che Sartre pubblica nel numero di esordio della rivista (ottobre 1945) – invita gli intellettuali ad avere sempre un occhio prudente sul potere, a diffidare della parola ufficiale, a chiedere di esercitare sempre uno sguardo di diffidenza e sorvegliato su chiunque agisca in nome dello Stato. E a chiedere che laddove si dà una politica repressiva è compito degli intellettuali, non solo dei contesti nazionali, ma di chiunque voglia assumere la parola di difesa dei perseguitati, a diventare attore pubblico a farsi giudice del potere, non solo a sorvegliarlo, ma anche ad agire perché la verità emerga.

[Leggi qui il documento: Jean-Paul Sartre, Prefazione a La tortura]

In quel cammino che inizia nel 1945 e che non chiede più solo un processo equo – così come Émile Zola nel gennaio 1898 si era posto nell’agorà politica col suo J’accuse che di fatto riapre il caso Dreyfus, quel manifesto del settembre 1960 preclude a quello che poi negli anni ’60 diventerà e sarà l’esperienza del Tribunale Russell: l’indagine e la controinchiesta sui soprusi e la violazione dei diritti. A Stoccolma, nel maggio 1967, la prima sessione del Tribunale internazionale Russell contro i crimini di guerra americani in Vietnam, presieduta da Jean Paul Sartre, implica di dare voce ai senza voce e trasmettere la possibilità che il senso di riscatto nella storia è possibile.


La rivolta libertaria Lettere dalla Rivoluzione algerina
di Albert Camus
o
La tortura “Tempo presente” 1960
di Jean-Paul Sartre

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