Articoli e inchieste

«Il momento dei socialdemocratici».
Lo spirito delle riforme degli anni Sessanta,
tra Italia ed Europa


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Premessa

È convinzione comune, confermata dalle ultime discussioni sulla manovra di bilancio in corso di approvazione in Parlamento, che al giorno d’oggi siano pochissimi i margini di azione sfruttabili dalla politica per impattare in profondità sulla società sulla base della propria visione e dei propri valori.

Si tratta di un’osservazione quasi banale che vale per il governo attualmente in carica, così come per gli esecutivi dal diverso colore politico che l’hanno preceduto. Insomma, anche i dibattiti di questi giorni ci restituiscono l’immagine di una politica al passo della linea dettata dall’economia. Come gli storici ci hanno spiegato in maniera molto chiara, l’attuale situazione affonda le sue radici nello Shock of the Global che si sviluppò a partire dagli anni Settanta.

Il primato della politica

In precedenza, per un insieme di fattori (uno su tutti: la funzione regolatrice del sistema di Bretton Woods), era invece la politica a “dare le carte”. Se ci soffermiamo in particolare sugli anni Sessanta, come ci insegna la stimolante storia dell’Europa postbellica di Tony Judt, potremo poi constatare una peculiarità del primato della politica, che si sostanziava in un generale consenso nei confronti dell’interventismo statale in economia: per riprendere proprio le parole di Judt, si era affermata «una visione caratteristica» ed era «quella dei socialdemocratici».

A differenza di quanto avvenuto nell’Ottocento, quando non erano mancati gli episodi «di una violenta sollevazione urbana», nel dopoguerra, si reputava possibile ottenere «autentici miglioramenti nella condizione di tutte le classi sociali», ricorrendo a «modi pacifici e graduali» (Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano, 2007, p. 448).

Le riflessioni di Judt ci pongono davanti ad una questione ben precisa: le riforme degli anni Sessanta – riforme intese in senso alto e ampio, cioè con l’obiettivo reale di plasmare la realtà attraverso un processo gradualistico – riguardano tutti i principali paesi dell’Europa occidentale. In effetti, una volta conclusa la fase più cupa e tesa della Guerra fredda, sostanzialmente attorno alla metà degli anni Cinquanta dopo la morte di Stalin, la fine del conflitto in Corea e l’avvio dei dialoghi tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ecco che si aprirono nuovi spazi di manovra anche all’interno dei palcoscenici politici nazionali.

Gran Bretagna e Germania Ovest

In linea generale, i nuovi esperimenti politici miravano a far terminare il conservatorismo
governativo, che aveva contrassegnato (anche se in maniera differente a seconda dei Paesi europei) gli anni Cinquanta, così da rimediare ai «ritardi di una democratizzazione ancora incompiuta» (G. Bernardini, Il primo centro-sinistra italiano nell’epoca del “riformismo europeo”, “Ricerche di Storia Politica”, 2/2014, p. 147).

Fu ciò che accadde in Gran Bretagna, dove nel 1964 si insediò il primo governo laburista guidato da Harold Wilson. Sulla base di alcune formulazioni programmatiche ben precise, Wilson arrivò a Downing Street dichiarando che i laburisti avrebbero trasformato «la Gran Bretagna», un Paese «rimasto indietro» rispetto al mondo mossosi «precipitosamente in avanti a una velocità entusiasmante e senza precedenti», in una nazione «moderna, dinamica, vigorosa e capace di svolgere in modo competente il proprio ruolo negli affari mondiali».

Lo stesso si può dire della Germania Ovest. Qui, dopo una lunga stagione segnata dai governi
cristianodemocratici-liberali iniziata fin dal 1949, maturò una trasformazione attorno alla metà degli anni Sessanta. Nel 1966 venne, infatti, costituita la prima grande coalizione della storia politica tedesca. Per i socialdemocratici si trattava di una svolta rilevante, resa possibile dalla revisione dei propri programmi che la SPD portò a compimento nel 1959 con il Congresso di Bad Godesberg. Nel nuovo documento fondamentale (Grundsatzprogramm) si fissava, tra le varie priorità, la modernizzazione dell’economia e dell’industria tedesco-occidentale.

Il caso italiano

Un percorso che, seppur con differenze di fondo che non possono essere dimenticate (una su tutte: la posizione peculiare dei socialisti italiani, che fino alla metà degli anni Cinquanta erano schierati su posizioni filosovietiche), si sarebbe realizzato anche da noi. Anche in Italia, come in Gran Bretagna e in Germania Ovest, furono sempre più diffusi i richiami alla necessità di modernizzare il sistema-paese, così da ridurre le storture sociali ed economiche.

Proprio il PSI, nel corso del suo Congresso del 1961, votò un documento conclusivo in cui si diceva più o meno così: i socialisti si dichiarano disposti ad assumersi responsabilità di governo, se la coalizione con la Democrazia Cristiana e gli altri partiti minori (il centro-sinistra, appunto) si fosse battuta per il «rinnovamento politico e sociale» dell’Italia.

Stiamo ancora al nostro Paese, anche se un discorso per certi versi simile si potrebbe fare per gli altri due Stati europei citati: l’esigenza di modernizzare le strutture sociali ed economiche
includendo ceti sempre maggiori al benessere non riguardava soltanto i socialisti. Nel 1962 Aldo Moro annunciava ai suoi compagni di partito che il centro-sinistra era una necessità inscritta nella realtà delle cose, verso cui bisognava lavorare anche in considerazione dell’evoluzione del partner socialista.

Linea comune

Qual era il punto di congiunzione su cui poi socialisti e democristiani costruirono le fortune del centro-sinistra? Dato che la fine del capitalismo non pareva affatto prossima, le ingiustizie da esso generate non sarebbero sparite in tempi rapidi. L’unica era predisporre un’azione di governo capace di contenerne gli effetti più nefasti. Per farlo, nella stagione delle riforme europee di cui anche il centro-sinistra nostrano era espressione, si decise di «usare le risorse dello Stato per eliminare le patologie sociali connesse alle forme capitalistiche di produzione e agli effetti di un’economia di mercato», per dirla ancora con Judt (Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, cit., p. 449).

Ecco, quindi, un elemento che accomuna l’alleanza tra DC, PSI e partiti laici in Italia con le esperienze riformatrici europee dei medesimi anni: la centralità dell’intervento pubblico, inteso quale reale strumento per trasformare la realtà, impendendo al capitalismo di far ricadere i suoi effetti più nefasti sui ceti sociali più deboli. Esempio classico, in questo senso, fu il varo della nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962, che portò alla nascita dell’ENEL.

Ragionare del centro-sinistra nel 2023, anche in considerazione con quanto avvenuto in Gran Bretagna e in Germania Ovest, è anche un modo, attraverso il ricorso alla storia, di misurare la lontananza da quella stagione e dalla centralità della politica che l’aveva contraddistinta.

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