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Iceberg digitale


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Articolo inserito nell’ambito della rubrica Algo-cracy
a cura dei ricercatori Jacopo Caja e Jacopo Tramontano


Quali sono le conseguenze socio-ecologiche del digitale?

Lungi da voler rivendicare una sorta di ritorno all’epoca analogica, etichettando la digitalizzazione come qualcosa di esclusivamente negativo, bisogna proporre una riflessione sulla salubrità (o, per converso, nocività) digitale. Una critica all’approccio mistificante dell’utopismo tecnologico, che ignora la materialità, o l’insieme dei processi materiali, che ha permesso al digitale di raggiungere la portata attuale.

Di seguito, con le parole del ricercatore Giorgio Pirina, proviamo a capire quali sono gli scenari che faremmo bene ad aspettarci in un prossimo futuro.

Il mondo nel quale viviamo è sempre più permeato dalle tecnologie digitali e dell’informazione. Un numero crescente di attività dipende da una fitta e spesso invisibile trama di connessioni. I gesti e le attività che abitualmente compiano nella vita quotidiana, gli ambienti domestici, i luoghi di lavoro, le strutture urbane, i veicoli, la fruizione di servizi – guardare un video in streaming, inviare un messaggio, prenotare un taxi, ordinare da mangiare, richiedere un servizio di pulizia, compilare e firmare un documento – i social media, i canali di messaggistica istantanea: tutto questo (e molto altro) è sempre più mediato dalle tecnologie digitali.

L’integrazione di queste ultime in una varietà crescente di ambiti sociali porta certo dei vantaggi. Ad esempio: velocizzare le comunicazioni, liberarsi delle “scartoffie”, rendere efficienti le Pubbliche Amministrazioni, agevolare forme di lavoro da remoto, (potenzialmente) decongestionare le città mediante servizi di bike-sharing e car-sharing, abilitare servizi di cura come la tele-medicina. La letteratura sulle smart-cities, inoltre, ha mostrato le possibilità (anche qui, potenziali) di migliore gestione e consumo di energia elettrica, di acqua e del traffico elaborando l’enorme quantità di dati prodotti dalle interazioni quotidiane.

Se guardiamo aldilà del semplice clic sullo schermo, si attiva una concatenazione di eventi e relazioni che delinea una geografia dello sfruttamento delle risorse umane e ambientali.

 

Decostruire la retorica

L’ecosistema digitale che permette tutto questo ha però un “peso”, dato da una serie di fattori spesso occultati dal discorso sulla tecnologia, come lavoro e ambiente. Nel primo caso, la letteratura ha mostrato l’essenzialità del lavoro “fantasma” di chi allena tecnologie come l’intelligenza artificiale e di lavoratori e lavoratrici di piattaforma che, durante la pandemia di Covid-19, hanno garantito la continuità di servizi di consegna di beni di prima necessità. Nel secondo caso, il peso è espresso da aspetti come l’emissione di gas climalteranti, la produzione di scorie e scarti di lavorazione, l’ingente consumo idrico e l’inquinamento di terreni e falde acquifere.

Qui non si vuole additare il consumatore o la consumatrice “irresponsabile” che continua non curante a utilizzare le tecnologie digitali e i relativi servizi nell’ambito della vita quotidiana: il punto non è la presa di consapevolezza individuale, per quanto questa sia importante, dell’inquinamento digitale e del lavoro necessario. Più importante è decostruire la retorica mistificante dei grandi monopoli digitali, le GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), e dei loro araldi relativamente dematerializzazione dell’economia.

Il cyberspazio

Alla base della trama di connessioni che irradia la propagazione digitale vi è una mistificazione: le tecnologie digitali sarebbero “spettrali” o invisibili, non legate ad entità fisiche, in altre parole virtuali. È bene sottolineare questi due termini: spettralità e invisibilità. Se guardiamo aldilà del semplice clic sullo schermo, si attiva una concatenazione di eventi e relazioni che delinea una geografia dello sfruttamento delle risorse umane e ambientali. Tale mistificazione ha un’origine precisa – la quale spiega anche il successo dell’affermazione dell’ecosistema digitale: quella dell’humus culturale della Silicon Valley, da cui discende una conformazione sociale, economica e produttiva che ha plasmato il capitalismo digitale.  Al cuore di questa ideologia c’è il passaggio metaforico dagli atomi ai bits, dall’hardware al software: si esaltano le capacità emancipatorie dell’innovazione tecnologica, la perdita di centralità della materia e delle costrizioni del mondo materiale, a vantaggio della creatività, della conoscenza, dell’affermazione dell’individuo.

Il cyberspazio sarebbe così un luogo privo dei lacci e lacciuoli alle capacità emancipatorie dell’individuo e, al tempo stesso, la nuova organizzazione sociale derivante dalle tecnologie digitale avrebbe ridotto gli impatti negativi sull’ambiente naturale. Da questa rappresentazione il digitale emerge come qualcosa di etereo, staccato dai processi concreti e storico-ecologici che lo rendono possibile. Questi ultimi diventano invece chiari se consideriamo il digitale come un’industria organizzata su scala globale.

Per capire gli effetti del digitale non si può disgiungere quest’ultimo dall’utilizzo finale, dalla manifattura elettronica, dalla logistica, dall’estrazione mineraria.

 

La metafora dell’iceberg

Per immaginare i costi umani e ambientali del digitale può essere utile la metafora dell’iceberg. La punta dell”iceberg rappresenta la parte visibile, l’esperienza immediata che tutti noi facciamo del digitale; sommersa vi è la maggior parte del corpo, data dall’insieme di relazioni ed eventi che non vediamo. Prendiamo il caso dello smartphone, cioè un mediatore pressoché universale di relazioni sociali. Per capirne il peso reale, inteso come l’insieme della materia, dell’energia e del lavoro che entra in gioco per realizzarlo, non dobbiamo considerare solo la forma finale, cioè come lo usiamo quotidianamente.

 

Piuttosto, occorre “spacchettarlo”, analizzarlo chirurgicamente per rilevarne ogni componente: touchscreen, fotocamera, chip, microfono, batteria, gps, e altro. Così, la produzione di uno smartphone prevede l’uso di forza lavoro e la movimentazione di materia ed energia organizzata perlomeno in sette passaggi:

1) estrazione di materie prime;

2) commercio ed esportazione verso le imprese di lavorazione;

3) fusione e raffinazione per trasformare il minerale;

4) fabbricazione di semi-lavorati e prodotti intermedi;

5) fabbricazione di schede elettroniche;

6) produzione del cellulare;

7) vendita al consumatore finale.

Ognuna di queste fasi presuppone il consumo di acqua, aria e risorse naturali, di energia elettrica e di lavoro.

Ipotizzando un processo da monte a valle, è importante considerare la fase manifatturiera ed estrattiva (fase a monte) congiuntamente con l’utilizzo delle infrastrutture elegata  dei servizi digitali (fase a valle). Senza pretesa di esaustività, ma solo a titolo esemplificativo, possiamo considerare: il lavoro forzato nelle miniere artigianali della Repubblica Democratica del Congo, da dove arrivano i cosiddetti minerali insanguinati, chiamati così per le condizioni di estrema violenza e coercizione a cui sono sottoposti, uomini, donne e bambini coinvolti nell’estrazione di coltan (tantalio), tungsteno, stagno, oro, oltre al cobalto. Il lavoro negli enormi stabilimenti dove i dispostivi dell’elettronica di consumo, “marchiati” dalle grandi corporations digitali, vengono assemblati. Anche qui, con regimi lavorativi servili: sono ormai note le condizioni di lavoro opprimenti a cui sono sottoposti gli operai della Foxconn, il più grande produttore a contratto di questo settore, passato alla ribalta diversi anni fa per i tanti casi di suicidio dei lavoratori. Il trasporto di questi manufatti lungo le catene di produzione globali. I lavoratori “fantasma” o del clic, che addestrano i sistemi di intelligenza artificiale pagati pochi centesimi per ogni “lavoretto” completato.

Spostandoci “a valle”, legato quindi all’utilizzo di infrastrutture, dispositivi e servizi digitali, troviamo lo sfruttamento dei lavoratori di piattaforma dell’ultimo miglio, come quelli del food delivery e del trasporto urbano, oppure la varietà di servizi ancillari agli affitti di breve termine (ad es. Airbnb). E ancora: i dati prodotti dalle interazioni quotidiane derivante dell’utilizzo dei servizi digitali – i quali rappresentano una delle maggiori fonti di valore per le imprese nel capitalismo digitale – dove si trovano? Essi si muovono lungo le infrastrutture informatiche e digitali e vengono immagazzinati nei data center, ossia enormi edifici pieni di server senza i quali l’economia digitale non potrebbe esistere, definiti da Greenpeace ormai più di 10 anni fa come le fabbriche dell’era dell’informazione del XXI secolo.

Inquinamento

Trasversale all’insieme di questi elementi, il metabolismo energetico e l’inquinamento derivante dallo spostamento e dalla lavorazione di materie prime, semi-lavorati, prodotti intermedi (un caso emblematico sono i chip) e prodotti finali. Il caso dell’estrazione e lavorazione delle terre rare in Cina, che è il principale produttore con circa il 60% della quota mercato mondiale, è indicativo. L’imponente crescita della domanda di queste risorse deriva, tra le altre, dall’applicazione nelle tecnologie per la transizione energetica (come magneti per motori elettrici, turbine eoliche ecc.), ma anche dalle applicazioni nell’elettronica di consumo per gli schermi di tv, smartphone e computer per migliorare la qualità dei colori e negli hard disk. Ma a quale costo? La raffinazione industriale di terre rare con sostanze acide o solventi chimici produce scarti che vengono riversati nell’ambiente esterno creando laghi artificiali di sostanze dannose per la salute delle persone e per l’ecosistema. Senza dimenticare le immense discariche a cielo aperto di rifiuti elettronici (e-waste), i quali confluiscono prevalentemente in Paesi come Ghana e Bangladesh, con la conseguente degradazione dell’ambiente dovuto al rilascio di sostanze tossiche contenute negli apparecchi.

Tutto questo ha un metabolismo energetico consistente, soprattutto in virtù del fatto che siamo di fronte ad un fenomeno in continua ed esponenziale crescita. Ogni momento vengono inviati oltre 74.500 gigabyte da circa 21 miliardi di dispositivi collegati nel mondo. La popolazione mondiale che utilizza Internet sta raggiungendo la soglia del 66%, mentre il tempo speso su Internet si aggira attorno alle 6.5 ore al giorno.  Pur non avendo effetti visibili agli occhi, tutto esercita un’impronta sempre più grande. Negli ultimi anni sono state realizzate delle stime sull’impatto ecologico del digitale e delle ICTs. È stato stimato che il complesso assemblaggio infrastrutturale alla base di queste tecnologie sia responsabile di circa il 10% della domanda di energia elettrica ed emetta circa il 4% di gas climalteranti a livello globale (più dell’industria dell’aviazione). Il consumo di energia elettrica dei data center, derivante dal loro funzionamento e raffreddamento a temperature polari, sebbene ammonti “solamente” a circa l’1% del totale, è maggiore di quello di interi Stati.

La transizione ecologica energetica e digitale difficilmente potrà raggiungere gli effetti desiderati riproducendo, in salsa “green”, dinamiche estrattiviste fossili.

Un interessante strumento di misurazione del “peso” del digitale è il MIPS (Material Input Per Service Unit). Potremmo dire che tale strumento materializza la spettralitá del digitale, cioè considera l’insieme della materia che entra in gioco per realizzare un manufatto, oltre all’inquinamento derivante dalla sua fabbricazione e utilizzo. Tale indice parte da un assunto semplice: considerare solo l’emissione di gas climalteranti è riduttivo, dunque bisogna ampliare il raggio di azione e guardare alla concatenazione di elementi. Per capire gli effetti del digitale non si può disgiungere quest’ultimodall’utilizzo finale, dalla manifattura elettronica, dalla logistica, dall’estrazione mineraria.

Da questa prospettiva, cioè considerando il digitale come un’industria organizzata e integrata a livello globale, diventa possibile analizzare criticamente la visione mistificante delle grandi aziende dell’hi-tech. Se è vero che le GAFAM hanno avviato una conversione dal fossile alle energie rinnovabili per alimentare le proprie infrastrutture e i propri data center(dunque, la fase a valle, relativa all’utilizzo dei servizi digitali), guardare l’altra metà del cielo data da manifattura, trasporto e estrazione di materie prime offre un quadro differente e più complesso in merito all’impatto ecologico del digitale. Poiché è difficile immaginare la propagazione digitale senza la produzione dei dispositivi che permettono la fruizione dei relativi servizi, nel computo della salubrità (o nocività) digitale e delle conseguenze socio-ecologiche occorre considerare le intere filiere. Un dato su tutti: la maggior parte della CO2 per la produzione di uno smartphone (variabile a seconda del marchio) è emessa nelle fasi di estrazione delle materie prime e manifattura dei materiali che lo compongono.

Il punto prospettico delineato fin qui permette di osservare le strategie e politiche introdotte dall’UE per contrastare (in realtà, adattarsi a) le crisi climatiche in maniera differente. La transizione ecologica energetica e digitale difficilmente potrà raggiungere gli effetti desiderati riproducendo, in salsa “green”, dinamiche estrattiviste fossili. A questo proposito, si pensi alle cosiddette “materie prime critiche”, cioè le risorse naturali che rivestono, in una data congiuntura socioeconomica, un ruolo centrale nelle strategie economiche e tecnologiche di un Paese o di un organismo sovranazionale come l’UE. Si definiscono critiche in virtù del rischio di approvvigionamento dovuto a una molteplicità di condizioni, come ad esempio l’instabilità politica della regione di provenienza, l’elevata concentrazione geografica, la frequenza di eventi climatici estremi e pandemie, a cui possono far seguito blocchi o rotture delle catene di produzione. Si tratta, in altri termini, di sicurezza energetica e di dipendenza da paesi esterni, che possono incidere negativamente su strategie e politiche di sviluppo e contrasto al cambiamento climatico. Oltre al ben noto caso del silicio, emblema della Silicon Valley per la sua centralità nella produzione di microprocessori, tra le materie prime critiche troviamo, ad esempio, il litio, il cui incremento esponenziale della domanda deriva dall’applicazione nelle batterie. Pensate agli utilizzi nei settori della mobilità elettrica e dell’automobile elettrica, oltre che nei dispositivi elettronici di uso comune.

Le materie prime critiche

Antimonio Afnio Fosforo
Barite Terre rare pesanti Scandio
Berillio Terre rare leggere Silicio metallico
Bismuto Indio Tantalio
Stronzio Magnesio Tungsteno
Cobalto Grafite naturale Vanadio
Carbone da coke Gomma naturale Bauxite
Fluorite Niobio Litio
Gallio Metalli del gruppo del platino Titanio
Germanio Fosforite

Da questo punto di vista la Commissione Europea ha avanzato il Critical Raw Materials Act, una proposta di regolamento per un approvvigionamento sostenibile, sicuro e diversificato delle materie prime critiche, in virtù della sua dipendenza da paesi esteri. Il rischio, però, è di innescare un processo di reinternalizzazione di processi estrattivi che poco hanno a che fare con la transizione ecologica.

In conclusione, è utile riprendere la metafora del Giano Bifronte come adoperata da Bruno Latour ne “La scienza in azione”. Da un lato c’è il volto sinistro del Giano, per cui la transizione (nel caso di Latour, la scienza come fatto) è qualcosa di “confezionato e pronto all’uso”, i cui meccanismi sono dati-per-scontati e non messi in discussione. Il volto destro rappresenta, invece, la transizione “in costruzione”, dunque la strada che ha portato all’attuale definizione di transizione, senza fermarsi agli assunti impliciti che l’hanno resa tale. In altri termini, per valutare il portato reale delle tecnologie digitali in relazione al raggiungimento dell’obbiettivo della carbon e climate neutrality in UE, occorre guardare la concatenazione di trasformazioni lungo l’intero percorso, da monte a valle, considerando la materia, l’energia e il lavoro messi in azione.

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