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Dov’è finito il cervello sinistro del Pd


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Il frastuono di silenzi e tuoni dopo il risultato elettorale del 25 settembre scorso si era appena sopito, ma dopo qualche giorno ha ricominciato a prendere corpo, nei dibattiti, nelle dichiarazioni di buoni propositi, nei “mea culpa” di alcuni dirigenti partitici, nella sicumera di altri per le scelte fatte, producendo una babele comunicativa amplificata dai media, soprattutto televisivi, che sono maestri di spettacolo politico ed hanno moltissimi fedeli seguaci. 

Quale lo scenario dopo il voto?

La destra estrema di Giorgia Meloni, in coalizione con la Lega e Forza Italia, ha avuto una vittoria netta con oltre il 43% delle preferenze; FdI, inoltre, da solo arriva al 26% dei suffragi, surclassando i suoi alleati, mentre il PD si ferma al 20%, circa raggiungendo in coalizione con Leu ed i Verdi un deludente 26,5% circa.

La Lega viene fortemente ridimensionata, mentre il Movimento 5 Stelle, nonostante il tracollo rispetto alle scorse politiche, recupera a sufficienza, soprattutto al Sud.

Ma al di là delle alchimie che derivano da una lettura approfondita dei dati, ciò che emerge è un vero stravolgimento dello scenario politico, con effetti che è presto per valutare dal punto di vista sistemico, ma che si annunciano già gravidi di conseguenze.  

Ciò che è certo è la disfatta della sinistra e in particolare del suo partito “egemone”, il PD, che viene da una lunga tradizione nella realtà italiana, e oggi perdente.

Inevitabile dunque chiedersi cosa è successo, quali le ragioni e gli impulsi che spiegano questa scelta dell’elettorato nella attuale situazione della nostra democrazia.

Perché questa virata a destra? 

Le ragioni sono diverse e come sempre, come i classici della politica ci hanno insegnato, vale poco la “reductio ad unum” delle cause che stanno dietro a determinati effetti, così come ingannevole è l’approccio legato all’avvenimento, che ignora il tempo lungo, la “longue durée” così proficua nell’analizzare il dipanarsi di fatti altrimenti compressi e falsati nella gabbia asfittica del tempo breve. 

Se queste sono le due coordinate, cosa è avvenuto nel PD? La causa immediata è una strategia sbagliata in campagna elettorale, la mancata attuazione di alleanze giuste, per la quale il segretario Letta è stato subito messo alla sbarra da avversari e alleati, ben oltre l’ossequio alla regola del “chi sbaglia paga”.

Letta lo sapeva da sé e subito ha deciso di non ricandidarsi alla segreteria del partito e avviato le procedure per un Congresso che, in tale situazione, dovrebbe avvenire presto e avere un carattere costituente. 

I dolori del malnato PD 

I veri problemi del PD sono altri e sono da ricercare in un passato vicino e in uno lontano. 

Nel passato recente (gli ultimi due decenni almeno) il partito, nato da un innesto frettoloso, ha perso il rapporto con le sue classi tradizionali di riferimento, la classe operaia e i ceti popolari; ha perso la sua cifra forte, attuando scelte politiche più centriste con l’idea di accreditarsi come partito delle istituzioni; ha smesso di fondare la sua organizzazione come una grande fucina che innervava di sé il sociale con una struttura, la sezione, che era stata agli inizi del ’900 il volano del partito di massa, diffuso sul territorio, aperto a tutti facendo piazza pulita dei partiti di notabili e di comitato propri di una società chiusa, in mano a poche élites che tutto decidevano.

Ha scelto una marcia forzata verso il potere, ma non ha compreso i mutamenti della società, il trasformarsi degli assetti sociali, l’emergere di nuovi ceti, di nuove domande, la richiesta di nuovi diritti.  

Ha in qualche modo ceduto alla tentazione del “partito pigliatutto” pragmatico-elettorale, mettendo in ombra l’idea del “partito progetto”, non quello rigidamente ideologico, ma quello capace di farsi interprete dei bisogni emergenti nella società, coniugandoli con cose precise: meno diseguaglianze, più diritti, adeguate politiche fiscali per garantire gli strati più svantaggiati, politiche del lavoro, politiche per gli spazi urbani, politiche che mettessero al centro il Sud (sparito da anni dall’agenda politica ed elettorale) come problema nazionale e non come “enclave” da tenere buona con qualche concessione ai vari governatori regionali.  

Insomma, il Pd si è allontanato da sane politiche socialdemocratiche mettendo in soffitta impegno sociale ed energia militante. E di mutazione in mutazione anch’esso ha preso i tratti del partito personale che porta con sé l’accentuarsi della distanza fra leader e base, fra partito e società, con un dominio personale del leader appunto.

La crisi del socialismo europeo

Il passato remoto riguarda un problema più grande: la crisi del socialismo europeo, dei partiti socialisti, che si registra in molti paesi europei, prima fra gli altri la Francia, dove il PS, dopo l’era Mitterrand, ha avuto un costante declino fino alla clamorosa sconfitta alle presidenziali dell’aprile scorso, alla scissione recente e all’alleanza di una parte di esso nella Nupes sotto l’egemonia di Jean-Luc Mélenchon, esponente di sinistra estrema. 

Tale crisi ha varie radici e ripropone, in uno scenario molto diverso, il nodo irrisolto dei partiti socialisti sin dalla loro nascita, quando la SPD (il Partito socialdemocratico tedesco nato nel 1876) si trovò stretta nella contraddizione fra la sua vocazione naturale, quella di rappresentare la classe operaia, e il suo essersi quasi subito affermata come partito parlamentare, con largo seguito elettorale e quindi vincolata dal suo stare nelle istituzioni: una tensione costante fra questi due poli che ne ha segnato la storia con un percorso travagliato e contraddittorio.  

Oggi come può dunque ricomporsi la sinistra nella realtà italiana segnata più di altri Paesi da una forte presenza di partiti populisti e sovranisti come quelli che ora sono al potere?

Neppure la Francia, culla del primo partito populista dagli anni ’70, o il Belgio hanno la destra estrema al potere. Come può ricomporsi un blocco democratico che torni ad ascoltare e parlare con la gente, sottraendola alle insidiose promesse di una società d’ordine, chiusa in se stessa che rifiuta il diverso come nell’alfabeto della destra estrema, proponendo invece una diversa, concreta idea di società?  

La strada è impervia ma è una sfida cui dobbiamo rispondere. Noi viviamo in Italia in una società conflittuale, con fratture culturali e politiche e in presenza di élites litigiose, cosa che ha prodotto un sistema instabile e acuito i problemi fingendo di risolverli.  

Io credo pertanto che il Pd non vada sciolto ma ri-fondato poiché è stato comunque un pezzo importante nella vita politica italiana, portatore di una tradizione che non va dispersa, protagonista di lotte, di impegno nell’affermazione di diritti e libertà che hanno cambiato il volto del Paese.

Chi propone di scioglierlo, dentro e fuori il partito, ha in mente uno scenario che ipotizza e auspica aggregazioni centriste che sono acqua povera e innocua nel complicato scenario attuale italiano ed europeo; una sconfitta elettorale non si supera con la sparizione o frammentando ancora il nostro sistema partitico.

Il governo di destra che sta per insediarsi non sembra portar bei frutti nel suo paniere e si muoverà dentro un perimetro preciso.

La democrazia è un insieme di ben ordinate regole e procedure come Hans Kelsen ha insegnato, ma perché si affermi necessita di un insieme di principi e valori precisi; quindi, secondo le regole democratiche occorre una opposizione ferma e responsabile che accenda luci e motori sui problemi urgenti del Paese, che ricomponga i cocci sparsi della sinistra, sulla base di una unità non fittizia, con una leadership che abbia due qualità: capacità di progetto e capacità di sintesi fra componenti differenti, ma che possono convergere per l’affermarsi di quei valori/diritti senza i quali la democrazia è un guscio vuoto.  

Riprendiamoci il cervello sinistro della sinistra.


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