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Tra salario e salute |

A Taranto l’assenza di opportunità di lavoro diventa un ricatto


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Articolo tratto dalla Pubblicazione Prometeo sullo Jonio, di Luca Novelli (Fondazione G. Feltrinelli 2025)

L’acciaio, simbolo di progresso, è anche sinonimo di sacrificio. E Taranto, con le sue contraddizioni, rappresenta questa doppia faccia della modernità: da un lato il sogno industriale, dall’altro l’incubo ecologico. Dalla nascita del più grande siderurgico d’Europa al disastro ambientale e sociale che ne è seguito, Prometeo sullo Jonio racconta la storia dell’ex-Ilva e il suo impatto sulla città e sui suoi abitanti.

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A Taranto, definita zona di sacrificio da un recente rapporto Onu,  sono rappresentate le dinamiche tipiche di questi territori. Qui, per profitto, l’industria pesante scarica su cittadini e lavoratori le sue conseguenze sociali, ambientali e sanitarie

La presenza dell’acciaieria più grande d’Europa ha infatti impedito lo sviluppo economico del territorio: per chi lavora ciò si traduce nel “ricatto occupazionale”. Si è costretti a scegliere tra “il pane e la morte” (le alternative).

Il lavoro all’ILVA è estremamente nocivo – lo dicono gli operai a cui si dà voce nel libro “Prometeo sullo Jonio”, in uscita per Fondazione Feltrinelli, lo dicono i dati sull’aspettativa di vita nel capoluogo, lo dice chiunque abbia una qualche relazione con la fabbrica – e espone quotidianamente chi sta sugli impianti a sostanze cancerogene e a infortuni (il rischio). I rapporti con i superiori sono “come a militare”: una parola fuori posto e si rischia di venire demansionati (la disciplina).

Come è possibile che questo modello produttivo duri tutt’ora? Oltre al ricatto, il consenso. Storicamente, la fabbrica ha rappresentato la risposta alla disoccupazione, e per un periodo, ha garantito l’accesso al benessere: la casa, la macchina, la barca, i figli all’università (il consenso).

Il rischio

p. 103

La produzione di acciaio è di per sé un’attività industriale rischiosa per i lavoratori, sia per gli infortuni sia per la presenza di sostanze tossiche nell’ambiente di lavoro. Infatti, se da un lato vi è un tema di esposizione a fumi, polveri, calore e sostanze tossiche (diossine, furani, benzene, benzopirene e metalli pesanti), dall’altro, per sua struttura, una fabbrica delle dimensioni dell’ILVA espone chi ci lavora a una gamma molto ampia di rischi.

Per esempio, chi opera sul piano di colata, negli altiforni, è in costante contatto con la ghisa liquida, un materiale che esce dal foro di colata a circa 1500 gradi. Qualsiasi contatto con questo tipo di sostanza espone a incidenti e traumi, come riportato in un’intervista:

“io stavo in contatto con la ghisa. È come l’acqua, ma a 2000 gradi. Usciva questo getto enorme, e la vasca è come questa [indica il fiume Galeso di fronte a noi, nda], un po’ più stretta, e il rigolone si riempiva di ghisa. Questa è la ghisa, fai finta che questa è la ghisa, e io camminavo qua, sul rigolone, e io andavo vicino alla bocchetta, questa è la bocchetta è io andavo là e col picchetto andavo a pulire la ghisa, io camminavo qua, quassù, senza paracose, paracoperchio, niente, camminavo così. Tu pensa che bell’ambiente di merda è questo.” (Intervista Mimmo)

E ancora:

“Quando la ghisa esce dall’altoforno, cammina come in un torrente: sai quanti ne sono morti così? Bruciati, fusi nell’acciaio… Eh, in molti ne sono morti, e pure a Genova. A Genova, al cimitero di Staglieno, quando un operaio moriva, gli mettevano sulla tomba il lingotto, cioè parliamo di un blocco di 15, 20 o 30 tonnellate. A Staglieno ci sono parecchie tombe così. Qua qualcuno c’è rimasto nel torrente, qualcuno è rimasto nel carro siluro. Ne sono morti parecchi. Però lì non c’è ancora oggi altro sistema. Dall’altoforno tu devi andare in acciaieria, e devi trasportare la ghisa: la ghisa è un rivolo che entra nel siluro e va in acciaieria, e ogni tanto esplodono, questi siluri.” (Intervista Angelo)

Il consenso

p.101

Sicuramente l’espansione della base occupazionale dell’ITALSIDER e la distribuzione di stipendi alti, che davano accesso a consumi e benessere, costituirono uno strumento di potenziale occultamento del rischio sanitario, ma non ci sono a disposizione dati che dimostrano che questo scambio sia avvenuto in modo esplicito, ovvero che l’occupazione e i redditi venissero conferiti come controparte di un rischio sanitario e ambientale riconosciuto e politicizzato da qualche attore – fossero gruppi di lavoratori autorganizzati, sindacati, movimenti ambientalisti.

Vanno in questo senso le parole di un ex-lavoratore:

“Non era proprio contemplato questo fatto [i rischi per la salute, la nocività, all’inquinamento, l’esposizione a sostanze tossiche] e io per primo mi rendo conto che facevo delle cose che adesso neanche se mi sparavano… In quel periodo, lavoro non c’era, e non c’era la consapevolezza: tu arrivavi alla fine del mese e potevi comprarti la barca, la macchina, la moto, andare in ferie, era una cosa favolosa…” (Intervista Angelo)

La disciplina

p. 112

“Eravamo carne da macello, praticamente. Io che stavo già in un reparto di collaudo, ben messo come reparto, eh. Ma ero destinato a lavorare su tutti gli impianti, impianti che non conoscevo. Per cui io in altoforno non ci volevo andare in nessun caso, ma c’è stato un momento, dato che ero l’unico dei due che usava gli ultrasuoni, che dovevo andare a fare un certo lavoro in altoforno. Con l’altoforno in funzione, dentro. In cima l’altoforno è fatto come con due campane in alto, da cui entra il materiale: si apre la prima, entra il materiale, si chiude, si apre la seconda, e il materiale scende giù. Queste campane si usurano, hanno 15 metri di diametro. Si consumano. E quando si consuma bisognava capire quant’era lo spessore residuo, con gli ultrasuoni.

Per entrare in questo sistema c’era un passo d’uomo di queste dimensioni [con le mani disegna uno spazio di un metro], scendevi, e andavi su questo cono, con l’altoforno che andava, coi mattoni rossi…un caldo. Quindi mettono la scala di legno e io scendo, metto il piede – faceva un caldo – con le scarpe di legno alte così; metto il piede comincio a spessorare. Ad un certo punto mi giro, e la scaletta era a fuoco. Il passo d’uomo era a 5-6 metri di altezza, io ero morto. C’è stata la fortuna che un operaio ex-galeotto aveva sottomano una scala di alluminio, mi butta sta scala, prendo la rincorsa, salgo su, bestemmiando come un dannato, c’era una persona del SIL, il reparto addetto alla sicurezza ‘calma, che succede?’

Io bestemmiavo, e lui ‘vai a prendere le bombole d’ossigeno’. E allora bombole di ossigeno, tuta di amianto, e di nuovo giù: non potevi dire di no; se dicevi di no, andavi a casa. Era come al militare.” (Intervista Angelo)

Le alternative

p. 117

L’espressione “ricatto occupazionale” è stata già proposta per inquadrare la condizione della classe lavoratrice a Taranto. Questo non va inteso in termini estensivi: seguendo questa logica si potrebbe intendere la condizione in cui si trova qualunque individuo costretto a vendere la sua forza lavoro in cambio di salario – condizione a cui, a ben vedere, si trova la grandissima parte della popolazione mondiale. Con ricatto occupazionale, invece, bisogna intendere una condizione per cui, in virtù di una struttura di mercato del lavoro incapace di produrre un’offerta, la scelta di un impiego dignitoso è vincolata a un’occupazione che, nel caso di Taranto, espone gli operai ad enormi rischi sanitari. Le parole di un lavoratore ILVA sono più che esplicite:

“O fai la giornata al mercato, o esci in barca e sono 20-30 euro; o fai la giornata da muratore, e sono 50, e in entrambi i casi ti spacchi la schiena; oppure entri in ILVA, 1200 euro al mese, e in ILVA stai bene [bueno].” (Intervista Nicola).

 

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