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Dalla fine del lavoro al lavoro senza fine


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Per lo speciale La classe operaia senza paradiso


“Post-fordismo”

Il periodo degli anni ’80 può essere definito con il termine “post-fordismo”, ovvero una definizione per negazione, come per tutti termini che iniziano con “post”: si sa ciò che non c’è più, ma non si ha ancora idea di ciò che potrebbe venire.
operai lavoro produttività
Ciò che non c’è più è la centralità egemone del modello della grande fabbrica manageriale come volano dell’accumulazione capitalistica, fondato su tre assi: taylorismo tecnologico, standardizzazione della produzione e composizione tecnica del lavoro che fa perno sull’operaio massa.

Negli anni ’90 comincia a delinearsi un modello di organizzazione e produzione che sulla flessibilità (tecnologica, produttiva, organizzativa e del lavoro) e sul ruolo crescente di nuove economie dinamiche di scala (di apprendimento e di rete) fonda la sua capacità competitiva.

I tentativi precedenti di uscire dalla crisi fordista che avevano preso piede in: 1. Giappone (toyotismo: coniugazione di automazione con flessibilità tecnologica à just in time, Cad-Cam-Cae, all’interno della grande impresa) e 2. in Europa e in Italia (i distretti industriali come nuovo modello organizzativo di divisione del lavoro) non riescono a diventare egemoni, godendo di un successo effimero.

Si afferma invece il modello della subfornitura internazionalizzata, in grado di sfruttare a regime le nuove tecnologie dell’ICT e del trasporto. In particolare le tecnologie informatiche sono portatrici di una rottura radicale: il linguaggio entra in produzione e diventa il “core” della tecnologia.

Entriamo nel capitalismo cognitivo e oggi nel capitalismo delle piattaforme

Le conseguenze sono rilevanti e spesso non immediatamente comprese. Eccone alcune:

  1. La diffusione di nuove economie dinamiche di scala (di apprendimento e di rete) modificano strutturalmente l’organizzazione del lavoro e dei posti di lavoro, favorendo processi di individualismo contrattuale (gerarchizzato e ricattabile), impotenza della tradizionale rappresentanza sindacale, (ancorata alla presenza di operai massa in produzioni tangibili) e incertezza/insicurezza sociale.
  2. Il processo di valorizzazione non dipende più esclusivamente dall’attività diretta di produzione, che, pur estendendosi su scala globale, incide in misura minore sulla catena del lavoro. Nuove funzioni economiche, non immediatamente produttive, diventano importanti: logistica, brandizzazione, attività di R&S e controllo dei flussi finanziari in imprese che da corporation stakeholder si trasformano in corporation shareholder
  3. Muta la composizione tecnica del lavoro in nome di una eterogeneità della prestazione lavorativa che richiede una cooperazione e un’autonomia eterodiretta e quindi gerarchizzata. Il lavoro intermittente, subordinato o eterodiretto a seconda dei casi, diventa la norma non l’eccezione.
  4. Contemporaneamente si estende la finanziarizzazione (privata) del welfare e dei servizi di pubblica utilità (liberalizzazioni e privatizzazione dei servizi sociali) e si estende la mercificazione (valore di scambio) della vita nella sua interezza: produzione e consumo, tempo di lavoro e di non lavoro, produzione e riproduzione si mischiano sempre più. Le facoltà vitali e cognitive vengono messe a valore in misura sempre più pervasiva.
  5. La dinamica della distribuzione del reddito si sgancia sempre dalla dinamica della produzione. La contrattazione collettiva perde mordente a scapito della contraddizione individuale. La diffusione della precarietà (sempre più esistenziale, strutturale e generalizzata) indebolisce la contrattazione e il reddito da lavoro tende sempre più verso un livello di sopravvivenza di malthusiana memoria. Le figure lavorative, a partire da quella dell’operaio massa, si squagliano e diventano tendenzialmente impotenti.

Nuove esigenze 

lavoratori produttivitàLe nuove figure emergenti, subordinate e/o eterodirette, ovvero il precariato giovanile logistico-cognitivo, eterogeneo e flessibilizzato, tranne alcune eccezioni, non trovano una rappresentanza sindacale e men che meno politica.

La “presunta fine” della classa operaia industriale è anche ‘esito’ della sua minore centralità nella capacità di rappresentare in modo omogeneo le nuove esigenze del mondo del lavoro.

Negli anni ’90 sono alcune componenti del centro sinistra e del sindacato (uno per tutti, Pietro Ichino) a insistere sulla separazione tra lavorator* “insider” (supposti tutelati) e “outsider” (senza alcuna tutela, in quanto precar*).

In tal modo, la nuova condizione precaria non assume la necessaria centralità per comprendere le trasformazioni strutturali del lavoro, precedentemente accennate. Il soggetto precario, nella sua eterogeneità (cognitivo e non, migrante e non, femminile e non), rimane invisibile nella sinistra e nel sindacato: non diventa nuovo soggetto del lavoro e della vita.

La sinistra istituzionale, all’indomani del crollo del muro di Berlino, a partire dai primi anni ’90 è troppo presa dall’infatuazione social-liberista di quel periodo e dall’illusione di poter cavalcare da “sinistra” e con la “concertazione” il neo-liberalismo montante.

Veloci, irreversibili cambiamenti

La non comprensione della condizione precaria da parte sindacale del mondo del centro-sinistra può essere giustificata dal fatto che nell’arco di un decennio la composizione tecnica e sociale della forza lavoro in Italia si modifica in modo veloce e irreversibile.

La figura dell’operaio massa che era stato al centro dell’attenzione dell’azione sindacale (sia rivoluzionaria che concertativa) negli anni Settanta comincia a frantumarsi. I processi di esternalizzazione e di delocalizzazione del modello della grande fabbrica lasciano spazio a nuove catene del valore, i cui soggetti lavorativi non sono più accumunabili a quello dell’operaio tradizionale massificato di fabbrica.

Nasce una nuova figura, in aggiunta (ma non per questo meno importante) della struttura organizzativa di fabbrica, quella del lavoro autonomo di II generazione (Bologna, Fumagalli, 1997), con esigenze e obiettivi diversi, che non trovano rappresentanza nelle tradizionali organizzazioni sindacali.

Di fatto si è sempre pensato che la precarietà fosse un fenomeno temporaneo, una sorta di prezzo che le nuove generazioni dovevano pagare per entrare in un nuovo mondo del lavoro dove creatività, flessibilità e capacità d’azione l’avrebbero fatta da padrone. Non è stato così.

Precarietà esistenziale

La condizione precaria non si è limitata a interessare solo l’aspetto della prestazione lavorativa. Ha cominciato a interessare sempre più l’intera esistenza, trasformandosi di precarietà lavorativa a precarietà esistenziale.

Tale passaggio, non a caso, ha coinciso con il fatto che la vita è diventata sempre più la nuova fonte di valorizzazione diretta, da quando si è diffuso il capitalismo delle piattaforme, come nuova organizzazione di produzione e accumulazione in grado di dare valore di scambio agli atti della vita quotidiana.

Nel contesto attuale, la separazione tra lavoro e vita tende a svanire.

Politiche del lavoro e politiche sociali sono due facce della stessa medaglia, sono sinergiche e nel contesto politico degli ultimi due decenni tendono a incrementare la mercificazione della conoscenza, dello spazio virtuale e della riproduzione sociale come nuova base privatizzata di accumulazione capitalistica.

Siamo tutte/i produttivi

Lungi dall’essere in una condizione di “fine del lavoro”, siamo nello stato di “lavoro senza fine”, ma con una nuova distinzione selettiva: quella tra attività che producono valore che, in quanto certificate, sono remunerate e attività, che, pur producendo valore, non sono remunerate, perché non riconosciute come tali.

La vera questione sociale non è solo tra chi ha un’occupazione e chi non ce l’ha, ma tra chi percepisce un reddito e chi no.

Il tema della sicurezza sociale e della costruzione di un welfare che consenta a ogni individuo di poter esercitare il proprio diritto reale all’autodeterminazione è oggi la sfida principale. Il diritto alla scelta del lavoro (e non solo al lavoro, tout court) è la condizione per sfruttare al meglio le economie di apprendimento, e di rete e di relazione che oggi stanno alla base della creazione di ricchezza e della crescita della produttività sociale (general intellect). Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un welfare del comune (Commofare).

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