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Davanti e oltre i cancelli delle fabbriche


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Che senso ha oggi discutere di quel complesso di mobilitazioni operaie che attraversarono il cosiddetto “autunno caldo” del 1969? Un anno tanto eccezionale quanto «italiano», l’anno della contestazione operaia potrebbe apparire al lavoratore di oggi roba da archeologia politica, parte di un’epoca di preistoria industriale caratterizzata dalla centralità della fabbrica, perimetro sociale e politico ben definito dove il mondo del lavoro poteva esercitare conflitto e protagonismo nei confronti di un capitale altrettanto definito ed identificabile.

Eppure, l’esercizio «genealogico» della storia non deve mai cadere nella musealizzazione. Ci ricorda Nietzsche nel suo pamphlet del 1874 Sull’utilità e il danno della storia per la vita che la storia non deve pietrificare l’agire umano imprigionandolo ad un mondo della necessità, di leggi e di eventi ineluttabili. Il filosofo tedesco ammonisce su ogni concezione della storia che inibisca la vita e la libera creatività dell’agire umano.

Il Sessantanove non può allora essere concepito come un mero processo causato da una congiuntura strutturale determinata, quella di un neocapitalismo italiano che, manchevole sul terreno dei diritti, doveva adeguarsi alle esigenze di democratizzazione di una società complessa come quella italiana uscita dalla Ricostruzione. Un tale lettura strutturalista sarebbe infatti parziale nella comprensione del fenomeno.

Il Sessantanove è stato un «evento» che ha fatto irruzione nella storia politica e sindacale italiana. Un processo di presa di coscienza collettiva avvenuto sulla scia di diverse esperienze operaie ed intellettuali che si sono fuse assieme, costruendo conoscenza, partecipazione, conflitto ed emancipazione.

Ad uno sguardo attento, certo, gli avvenimenti del 1969 hanno avuto tutt’altro che una rapida gestazione. I prodromi della riscoperta dell’azione collettiva di base, in cui i lavoratori dei maggiori stabilimenti industriali – dalla Fiat di Torino, alla Pirelli di Milano, alla Montedison di Castellanza come a quella di Porto Marghera – hanno ridiscusso gerarchie di fabbrica, modalità di partecipazione alle decisioni aziendali, modi di organizzare il lavoro e la produzione, erano già ravvisabili nel lavoro svolto da numerosi gruppi e di base.

L’esperienza dei Quaderni Rossi a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, dove attorno a Raniero Panzieri si erano radunati numerosi giovani intellettuali di estrazione comunista e socialista, è stata per certi versi pionieristica. Essa ha consegnato un repertorio di analisi e di azione che ha poi trovato terreno fertile proprio nel 1968 studentesco e poi nel 1969 operaio.

Non è possibile infatti pensare al 1969 come ad una rivolta stagionale, tanto episodica quanto effimera.

Conoscenza, azione, emancipazione

Se una delle elaborazioni principali di quel complesso di agitazioni studentesche sintetizzate nel Sessantotto fu la critica tanto al sapere astratto della società borghese quanto alla sua subordinazione a meri criteri di amministrazione delle funzioni – ideologiche o materiali – del capitalismo, è davanti ai cancelli delle fabbriche che quell’intelligentsia critica proseguì la propria azione.

Così Bruno Trentin riassume l’entità di quel sollevamento culturale.

Così come il movimento di classe ha riscoperto la non neutralità della scienza, così come la lotta di classe ha riscoperto che l’organizzazione del lavoro non è solo un fatto oggettivo, così, io credo, dobbiamo applicare a noi stessi, all’organizzazione di classe, la stessa legge, lo stesso rigore, lo stesso criterio e riconoscere il peso che conservano e conserveranno le ideologie, le ideologie delle classi dominanti, le ideologie delle classi subalterne, le ideologie dell’avversario di classe, le ideologie delle forze politiche che agiscono all’interno del movimento operaio, nella formazione della coscienza di classe. »[1]

Presa di coscienza collettiva come conditio sine qua non per la presa di potere.

Numerose sono le realtà e così i gruppi di operai e tecnici che sperimentarono attraverso lo sciopero e il conflitto  nuove forme di partecipazione di massa. Molteplici ed inaspettate furono le direzioni che assunsero le elaborazioni di pratiche di autogestione e di gruppi d’inchiesta, di studio e di socializzazione della propria condizione di vita e di lavoro.

Nel 1972, quasi ad effetto delle mobilitazioni che, come ci ricorda anche Sergio Bologna[2], investirono in molte realtà produttive proprio i «tecnici», nacque Medicina Democratica, movimento ed organizzazione di lotta per la salute. Medicina Democratica nasce formalmente attorno al gruppo di medici e tecnici – che poi daranno vita alla prima forma di medicina del lavoro in Italia – radunati attorno a Giulio Maccacaro, professore all’università di Milano – presso la Montedison di Castellanza.

Sorto con l’intuizione di Maccacaro di legare la critica alle nocività del luogo di lavoro con l’inchiesta sugli stessi luoghi di lavoro, il lavoro di Medicina Democratica è erede delle pratiche di socializzazione tra operai, tecnici, scienziati ed intellettuali che svilupperanno un’idea di scienza e tecnologia – largamente intese, dalla medicina, all’organizzazione alla sociologia – come «co-produzione» fondata sulla comune elaborazione tra esperienza operaia e scientifica.

E’ questa un’innovazione scientifica e sindacale che porta a riscoprire la questione della «qualità del lavoro» inteso come critica al cottimo, ai ritmi di lavoro, all’organizzazione della produzione e alla sua tecnologia. Critica, non rifiuto, ovvero ridiscussione del potere sociale intrinseco a presunte scelte «scientifiche» dietro all’ergonomia, l’efficienza e la calcolabilità della produttività. Un tema che è stato magistralmente riassunto nell’immagine della giornata lavorativa di Lulu Massa, personificato da Gianmaria Volonté nel capolavoro cinematografico La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

Caso particolarmente rilevante di co-produzione è ravvisabile nell’esperienza di studio e rinnovamento del reparto Carrozzeria di Mirafiori[3] che coinvolge, assieme agli operai addetti, un gruppo consistente di studiosi – tra gli altri i giovani sociologi Luca Ricolfi e Alfredo Milanaccio che cureranno il volume, assieme a medici, esperti di organizzazione e di tecnologie.

Svolto in uno tra i reparti FIAT più sensibili, quello descritto da Ricolfi e Milanaccio è un caso di conflitto per la qualità del lavoro e della produzione che innesca uno studio e una ricerca che avrà conseguenze ben oltre lo studio stesso. A livello ambientale, il reparto, altamente nocivo e ai limiti dell’impraticabilità ambientale a causa dell’uso delle vernici, verrà sottoposto a rinnovamento tecnologico per divenire uno dei più automatizzati della fabbrica torinese.

Il tema che solleva quest’esperienza è tanto eccezionale quanto emblematico della capacità di innovazione dell’azione collettiva che caratterizza l’Autunno Caldo e che va oltre le tradizionali rivendicazione puramente salariale.

Critica a ritmi, ambiente di lavoro, salute, tecnologia, organizzazione: l’intera infrastruttura della produzione ed organizzazione di fabbrica, con i suoi principi e le sue gerarchie, così come l’opacità dell’informazione sui rischi e la distribuzione ineguale del suo potere vengono interamente ridiscussi.

Ma il più grande e decisivo effetto dell’Autunno Caldo è l’ottenimento dello Statuto dei Lavoratori approvato per legge nel Maggio 1970, uno dei cardini della Repubblica Italiana,  sintetizzato nella massima di Vittorio Foa come «la costituzione che varca finalmente i cancelli della fabbrica».

Vista l’importanza epocale di tale esperienza, non è quindi il caso di rendere sbrigativamente quel grande patrimonio di lotte ed esperienze collettive scaturite dall’Autunno Caldo come un mitico Eden di partecipazione, insubordinazione e libera espressione collettiva, come fosse un repertorio attivistico idilliaco concepibile solo in una situazione tanto eccezionale quanto passata, da relegare al museo dell’industria.

Non era affatto facile manifestare le proprie opinioni in fabbrica nell’Italia del 1969 dominata da una cultura aziendale militare – come ci ricorda lo stesso ex-dirigente FIAT Maurizio Magnabosco[4]. Cultura anche in gran parte legata agli equilibri della Guerra Fredda, alla posizione dell’Italia come osservato speciale da parte statunitense, dove sulla FIAT di Valletta veniva fatta pressione persino dall’ambasciata americana nel tentativo di ostacolare il movimento operaio e il Partito Comunista[5].

Entrare con L’Unità in tasca in un luogo di lavoro nell’Italia del Dopoguerra, poteva significare il licenziamento quando non l’esclusione e la marginalizzazione. Scioperare o rivendicare diritti spesso si accompagnava a forti ritorsioni quando non alla segregazione e all’isolamento in reparti confino.

E nonostante ciò, in presenza di alti costi di mobilitazione, personali e collettivi, economici ed esistenziali, è stato possibile un grande movimento di democratizzazione che ha aperto ad una delle istituzioni più importanti dell’Occidente contemporaneo come lo Statuto del Lavoratori.

Trattare e discutere dell’Autunno Caldo è esercizio che deve necessariamente aiutare a ravvivare le coscienze dei lavoratori odierni, proprio in un’epoca come questa troppo descritta come parte di quel «Grande Freddo», sempre per prendere in prestito un’altra immagine dal repertorio cinematografico, dove ognuno è restituito ai propri problemi e alla propria condizione di individuo abbandonato alla propria solitudine lavorativa e politica.

In un momento storico dove il numero di lavoratori a livello globale si avvicina ancora ai 2 miliardi, è proprio in Occidente che laddove pare registrarsi un sentimento di riflusso, di perdita di centralità per il mondo del lavoro, ancor più importante è ricostruire l’attualità dei diritti legati al lavoro nel suo carattere pienamente sociale di azione e trasformazione della realtà.

Il lavoro è di certo poca cosa se lo si considera una mera attività di vendita della propria forza, delle proprie competenze e del proprio tempo per garantirsi la sussistenza. Il 1969 ci ricorda che e’ solo con la lotta e con la cultura che si può costruire riconoscimento e centralità, consapevolezza dei propri diritti e del proprio ruolo in società. Questa è la grande eredità, valida tutt’oggi a tutti coloro i quali sono e si definiscono lavoratori.

 


[1] Trentin, B., Sindacato, organizzazione e coscienza di classe in Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-73, Annale, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1976 p.934

 

[2] Bologna, S., Il 1968 in fabbrica, in Balestrini, N., Moroni, P., L’orda d’oro (1968-1977). La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Felrinelli, Milano, 1988, p.295-96

[3] Milanaccio, A., Ricolfi, L., Lotte operaie e ambiente di lavoro, Mirafiori 1968-1974, Einaudi, Torino, 1976

 

[4] Magnabosco, M., Dealessandri, T., Contrattare alla FIAT, Ed.Lavoro, 1987

[5] Bonazzi, G., Sociologia della FIAT, Il Mulino, Bologna, 2000

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