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Campo largo a ostacoli


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Costruire coalizioni

In ogni sistema partitico europeo, con l’eccezione della Gran Bretagna (e parzialmente della Francia) è necessario costruire delle coalizioni per governare. In Italia è sempre stato così. Solo un partito, il Pd, in alcuni anni della premiership di Matteo Renzi, si è avvicinato alla status di governo monopartitico in quanto i partner che lo sostenevano dall’interno (l’Ncd di Angelino Alfano) e dall’esterno (l’Ala di Denis Verdini) erano così deboli da apparire irrilevanti. Per il resto, anche nel periodo del Berlusconi trionfante, era necessario presentarsi alle elezioni in coalizioni con altri per poter governare.

Il confronto tra destra e sinistra nel passato e in questi giorni offre materia per alcune considerazioni. La prima riguarda la stabilità e coesione della destra. Dal 1994 il centro-destra (dizione pudica per non usare con più chiarezza i termini di destra e sinistra) si è sempre presentato con lo stesso formato: tre partiti maggiori, Forza Italia, Lega e Alleanza Nazionale, ai quali si sono aggiunti di volta in volta piccole formazioni centriste-moderate di derivazione post-democristiana.

Per usare una celebre metafora calcistica il modulo di gioco era quello del tridente. L’ unico strappo a questa conformazione ha portato al disastro. Nel 1996 la Lega defezionò dall’alleanza e si presentò da sola causando così la sconfitta della destra e la vittoria dell’Ulivo. E questo nonostante i tre partiti del classico tridente, più l’alleato confessionale Ccd-Cdu, avessero totalizzato il 51.9% dei voti. La destra ha fatto tesoro di quell’esperienza (negativa) e non si è più divisa. Oggi si ripresenta nello stesso formato, con Fratelli d’Italia che ha ereditato il posto di Alleanza Nazionale. E per questo vanta un netto vantaggio coalizionale rispetto alla sinistra, divisa e litigiosa.

Conflittualità perenne a sinistra

L’opposizione è articolata in partiti che non hanno una tradizione di collaborazione anche perché sono tutti di formazione recente. Persino il Pd, che pure è ancorato a tradizione precedente, è nato solo nel 2007. La sinistra ricorda più un caleidoscopio che rifrange tanti attori e tante posizione che una alleanza politica. Del resto il perno di questa potenziale coalizione, il Pd, è troppo debole oggi per agire da magnete nei confronti degli altri. Di conseguenza, la conflittualità, al di là delle visioni politico-ideologiche divergenti, è uno stato normale della vita interna dell’opposizione.

Un’intesa difficile

Dopo il successo di Pd, M5s, +Europa e Verdi e sinistra in Sardegna sembrava che anche Azione, che invece aveva sostenuto senza alcun successo il candidato indipendente Soru, avesse compreso che era necessario accordarsi con gli altri partiti per vincere e non rimanere fuori dai giochi. Carlo Calenda aveva affermato di essere disposto a bere l’amaro calice di un rapporto anche con i 5stelle. Invece, è bastata la sconfitta in Abruzzo del campo larghissimo dell’opposizione per mandare di nuovo tutto all’aria. Le giravolte di Carlo Calenda non stupiscono più di tanto, e quindi non è questo il punto.

In realtà, la costruzione di una coalizione competitiva necessita di un accordo di fondo sulle scelte politiche. Ed è questo che differenzia la sinistra dalla destra, che condivide alcuni punti comuni, sufficienti per mantenere l’alleanza coesa. I due azionisti di maggioranza dell’opposizione, Pd e M5s stentano a trovare un terreno d’intesa sicuro. Perché sono molto diversi.

M5S: la tentazione dell’antipolitica

Sotto un certo aspetto, tuttavia, le differenze tra due partiti possono essere un fattore positivo perché attraggono elettorati diversi. Il M5S parla e viene ascoltato da platee indifferenziate nelle quali prevalgono coloro che sono lontani dalla politica e coltivano ancora sentimenti anti-establishment. A questi si affiancano quei ceti sottoprivilegiati che sono stati sospinti verso i pentastellati dalla recente curvatura “laburista” del partito , rappresentata dall’introduzione e dalla difesa del reddito di cittadinanza – e più di recente dalla campagna per il salario minimo. Si tratta di un elettorato di protesta sia sul piano sociale che su quello politico.

Il grande successo del M5s è arrivato quando è riuscito a rappresentare entrambi gli aspetti. Ovviamente dopo anni di governo l’arma della protesta antipolitica è spuntata. Per quanto circoli ancora nell’elettorato pentastellato questo sentimento, la maggior parte delle persone che avevano sostenuto il partito sintonizzandosi su quella frequenza è passata all’astensione.

Il Pd e il conflitto “città – campagna”

Gli elettori di riferimento del Pd si differenziano dai pentastellati sia sul piano sociale che per le coordinate politico-valoriali. L’immagine giornalistica del Pd come partito delle Ztl riflette solo una parte della verità. Nelle grandi città metropolitane, ad eccezione di Bologna, il Pd è diventato dal 2018 egemone nelle città e nei centri storici perdendo, proprio a favore del “populismo” leghista e grillino il consenso nelle zone più periferiche. Questo dato riflette una tendenza, già in atto da tempo e accelerata recentemente, alla concentrazione del voto Pd nelle aree urbane, ad eccezione delle regioni del suo radicamento storico.

Il Pd si è inserito nella nuova linea di conflitto “città – campagna” che ridisegna la politica in Europa: un conflitto ridefinito “tra somewhere e nowhere”, l’espressione utilizzata da David Goodhart all’epoca delle Brexit, per indicare la differenza tra coloro che si sentono radicati in una località e vogliono difendere le loro peculiarità, e coloro che si sentono aperti al mondo e quindi al cambiamento, all’innovazione, alla presenza della diversità. Non stupisce allora che Elly Schlein sia arrivata alla leadership del partito: esprimeva con la sua biografia e le sue posizioni più compiutamente di altri questo tipo di elettorato.

Cercare terreni di intesa

Gli elettorati di Pd e M5s, qui brevemente delineati, sono sì diversi, ma potenzialmente complementari. Per farli coesistere è necessario un lavoro di tessitura per trovare terreni di intesa. C’è consonanza sul terreno economico sociale visto che entrambi sostengono una maggiore giustizia sociale. Mentre sull’immigrazione e, per certi aspetti, sulla politica estera rimangono divergenze.

Sull’immigrazione, in particolare, le valutazioni sono molto distanti tant’è che su questo gli elettori pentastellati sono più in sintonia con la destra che con il Pd. In politica estera i due partiti hanno posizioni diverse, anche se si tratta di più di accenti che di visioni inconciliabili. Le scivolate del passato verso la Cina e la stessa Russia, quando il M5s era in tandem con la Lega salviniana, sono state superate, ma hanno lasciato un sottofondo di diffidenza tra gli alleati, che si riattiva quando il M5s pone condizioni all’invio di armi all’Ucraina. L’obiettivo condiviso della pace e della cessazione delle ostilità si esprime con accenti diversi tanto da suscitare reazioni preoccupate da parte del Pd.

Allo stato attuale la destra, nonostante l’insofferenza salviniana, vanta un grado di coesione che la sinistra è ancora lontana dall’ottenere. Se nemmeno i due partiti maggiori troveranno un’intesa tale da trainare quelli che venivano considerati “i cespugli”, la strada per la conquista della maggioranza è tutta in salita.

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