Un passato che ci interroga: Ustica e le forme della memoria

approfondimento


Articolo tratto dal N. 38 di Ustica, 45 anni dopo Immagine copertina della newsletter

Il diritto di ricordare

Sono nato nel 1982. La strage di Ustica è avvenuta due anni prima. Non ne ho memoria diretta. Ne ho letto, ne ho visto le immagini nei telegiornali, nei documentari, nei libri. Ho ascoltato i racconti dei familiari delle vittime, ho seguito le battaglie giudiziarie, ho incrociato quella storia tante volte. Ma sempre in modo mediato. Questo, per lungo tempo, mi ha fatto domandare con che diritto, con quale autorità, potessi avvicinarmi a una vicenda così dolorosa e complessa. Mi chiedevo: è possibile fare memoria senza aver vissuto? E se , come farlo senza cadere nella retorica, nel didascalico, nella strumentalizzazione? 
 
A un certo punto ho capito che forse era proprio quel dubbio il punto di partenza necessario. Che non avere una memoria personale dell’accaduto non mi esonerava dalla responsabilità della memoria, ma la ridefiniva. La mia generazione — e ancora di più quella che oggi varca le soglie del Museo per la Memoria di Ustica — ha il compito di interrogare il passato con strumenti nuovi, con la consapevolezza di chi può accedere a una pluralità di fonti, ma anche con l’urgenza di non lasciar svanire il senso di ciò che è stato.

Fare memoria oggi significa chiedersi come trasmettere l’intransmissibile, come rendere viva e attuale una verità che è stata per anni occultata, negata, manipolata. L’arte, in questo senso, non ha un ruolo consolatorio. Non deve offrire conforto, ma strumenti di pensiero. Può aprire spazi critici, generare empatia, creare connessioni tra ciò che è accaduto e ciò che ancora ci riguarda

Il Museo per la Memoria di Ustica è un luogo unico

Al centro dello spazio, il relitto del DC-9 Itavia abbattuto il 27 giugno 1980. Attorno a esso, l’installazione permanente di Christian Boltanski: 81 specchi neri, 81 luci che si accendono e si spengono, 81 casse che emettono flebili voci, 9 grandi casse nere contenenti oggetti personali delle vittime. Tutto parla di assenza, di sparizione, di una presenza interrotta che continua a risuonare. Curare la direzione artistica di un luogo così carico di senso significa innanzitutto riconoscere la sua forza.

Non si tratta di aggiungere, ma di ascoltare. Di creare condizioni per nuovi dialoghi, senza mai sovrastare o distrarre. L’obiettivo è fare del Museo non un monumento immobile ma un organismo vivo, capace di parlare ogni volta in modo diverso, a seconda di chi lo attraversa e di ciò che accade nel mondo.

Concepire nuove installazioni in questo contesto significa lavorare sul filo sottile tra memoria e contemporaneità. Evitare l’estetizzazione del trauma, ma anche il didascalismo. Cercare artisti e artiste capaci di entrare in relazione profonda con il luogo, con la sua storia, con le sue ombre e le sue domande. 

Come nasce questo museo?

Nasce da una spinta civile forte e tenace. È il frutto di anni di battaglie condotte dall’Associazione dei Parenti delle Vittime, che non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia, opponendosi all’oblio, alle versioni ufficiali contraddittorie, ai silenzi istituzionali. È anche il risultato di una presa di coscienza collettiva, di un’esigenza politica e culturale di trasformare un trauma nazionale rimosso in un luogo di memoria attiva.

L’Amministrazione comunale di Bologna ha avuto un ruolo decisivo nel sostenere questo processo, accogliendo il relitto del DC-9 in uno spazio pubblico e commissionando a Christian Boltanski un’opera che non illustrasse la tragedia, ma ne custodisse la complessità. Il Museo è dunque il prodotto di una convergenza rara tra istanze civiche, volontà politica e sensibilità artistica. Un esempio concreto di come la memoria possa diventare infrastruttura culturale, spazio critico, responsabilità condivisa.

L’arte come indagine di memoria e della giustizia

Negli anni ho cercato di attivare questo dialogo attraverso una serie di interventi che ogni volta hanno cercato un punto di contatto autentico con il Museo e con la strage di Ustica. Non si è trattato di illustrare un evento, ma di riflettere su temi più ampi: la verità, la giustizia, il tempo, la fragilità della vita umana, la responsabilità collettiva. 
 
Antonello Ghezzi – Lo stesso cielo (2018) 
Un’opera che guarda verso l’alto, verso il cielo che accomuna tutte le vite. Una riflessione sullo spazio condiviso, sul mistero che ci sovrasta. Un cielo che è stato teatro della tragedia, ma anche luogo di speranza, di connessione, di sogno. 
 
Giuseppe De Mattia – Allo stesso tempo (2019) 
Un lavoro sul tempo come dimensione della memoria. Il passato che irrompe nel presente, il presente che cerca di dare forma al passato. Un’opera fatta di tracce sonore e visive che si depositano nello spazio come eco di un tempo sospeso. 
 
Nino Migliori – Stragedia (2020) 
Una parola composta, che uniscestrage” e “tragedia“. Migliori lavora sulle immagini, le manipola, le sporca, le rende inquietanti. La fotografia diventa strumento di perturbazione, non di rassicurazione. Ogni immagine è un varco. 
 
PetriPaselli – Battaglia Aerea (2021)
 
Un’opera che gioca con il linguaggio ludico, con la memoria pop, con le estetiche del modellismo e del plastico. Ma sotto la superficie ironica, si apre uno spazio critico: la guerra, la violenza, la costruzione sociale del nemico. 
 
Alessandro Di Pietro – ZULU TIME (2022)
 
Il tempo universale, quello militare, quello delle operazioni coordinate e delle strategie invisibili. Un lavoro sulle tecnologie, sui linguaggi codificati, sui meccanismi della guerra e della sorveglianza. Il cielo, ancora una volta, come campo di battaglia. 
 
Thomas TeurlaiEvidenza di reato (2023) 
Una riflessione sulla prova, sul reperto, sull’oggetto come testimone muto. Teurlai lavora con materiali tecnici, residui, dispositivi elettronici. La materia diventa indizio, la scultura diventa archivio. Un’indagine aperta, mai conclusa. 
 
Jacopo Rinaldi – Viaggio notturno per mare (2024)
 
Un’opera che richiama il viaggio, la notte, l’inabissamento. Ma anche il ritorno, il riemergere. Rinaldi costruisce un paesaggio mentale, fatto di luce flebile e suoni lontani. La memoria come attraversamento, come deriva, come esercizio di orientamento nel buio. 

Non solo un ricordo 

Oggi credo che il ruolo del Museo per la Memoria di Ustica non sia solo quello di custodire il passato, ma di attivare il presente. Di interrogare chi lo visita, di offrire strumenti per leggere criticamente il mondo. La memoria non è mai solo commemorazione: è un atto politico, è una responsabilità.

Se continuo a lavorare con gli artisti è perché credo che l’arte possa ancora incidere, disturbare, accendere domande. E perché sono convinto che anche chi è nato dopo possa — debba — farsi carico della memoria. Non per ripetere, ma per rilanciare. Non per chiudere, ma per aprire.  Quello che è accaduto nel cielo sopra Ustica riguarda tutti noi. E continuare a parlarne, anche attraverso il linguaggio potente e fragile dell’arte, è un modo per non lasciarlo cadere nel silenzio. 

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