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Polizia italiana: una riforma mancata?


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Le violenze e i pestaggi recentemente documentati alla Questura di Verona tra luglio 2022 e marzo 2023, hanno riportato il dibattito pubblico a concentrarsi sul reato di tortura e sulla violenza della polizia. Venticinque agenti sono stati accusati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio per le violenze ai danni delle persone che avevano in custodia.

Le testimonianze emerse parlano di un contesto di «abituale utilizzo di violenza gratuita» e un «modus operandi consolidato», come ha sottolineato Livia Magri, la giudice che sta seguendo il caso. Nonostante l’ex vicecapo della polizia di Stato (PS) Achille Serra sostenga che si tratti di poche «mele marce» e il questore Roberto Massucci parli di una «pagina nera», i fatti accaduti non sono gli unici esempi di abusi commessi da agenti delle forze dell’ordine.

Tortura e demilitarizzazione: la Legge 121 del 1981

Quando parliamo di forze dell’ordine ci riferiamo ad un corpo che ha il compito di mantenere e ristabilire l’ordine in un contesto di pari (i cittadini) per cui l’uso della forza è da evitare. In un ambito di tipo militare, invece, la realtà esterna è vista come ostile, i soggetti sono non cittadini ma nemici o rappresentano comunque pericoli. Di conseguenza, l’uso della forza è facilitato. Quando le forze dell’ordine acquisiscono questa mentalità si parla di militarizzazione. La nascita di questo fenomeno è facilitata dall’intervento dell’esercito in questioni di ordine pubblico, come potrebbe essere l’Operazione Strade Sicure che dal 2008 assegna ai militari coinvolti la funzione di agente di pubblica sicurezza, o dalla prevalenza di ex militari tra le forze dell’ordine, agevolata in Italia dalla creazione di concorsi appositi.

Dopo l’inserimento nel Codice penale del reato di tortura nel 2017, anche a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per i fatti del G8 di Genova, si sono infatti susseguite una serie di condanne a membri delle forze dell’ordine – anche della polizia penitenziaria. Diversi, inoltre, sono i casi a sfondo razziale.

Alla luce di questi fatti è lecito domandarsi quali effetti abbia avuto la Legge 121 del 1981 con cui venne smilitarizzata la polizia italiana. La legge garantì maggiori diritti agli agenti e consentì la creazione dei sindacati di polizia, riformò l’addestramento e garantì l’ingresso alle donne nella PS.

Una prospettiva storica fa però emergere almeno tre problematiche che suggeriscono il ridimensionamento della portata di tale riforma. Innanzitutto, alcune continuità con l’epoca liberale e fascista. L’adozione, negli anni Settanta del XX secolo, di provvedimenti tesi ad inasprire le leggi in materia di ordine pubblico. Infine, la sovrapposizione di competenze e l’affollamento di forze dell’ordine in cui spicca la sopravvivenza di corpi militari preposti all’ordine pubblico: l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza. L’accordo Carcaterra del 1954 tentò di ovviare al problema assegnando ai carabinieri le aree rurali, ma già negli anni Sessanta la sua implementazione venne interrotta. Con la Legge n.78 del 2000, inoltre, i carabinieri hanno rafforzato la propria preminenza rispetto alla PS, divenendo Arma indipendente. Ciò ha ridotto la capacità innovativa della riforma del 1981.

Operazione strade sicure
Operazione strade sicure

Continuità tra l’Italia liberale, fascista e repubblicana

Quando si parla di continuità non bisogna pensare ad una mera persistenza di pratiche e strutture, ma leggere la continuità nel mutamento dei regimi che ricontestualizzano pratiche e strutture.

L’Italia liberale e fascista condividevano la richiesta, da parte del potere politico, di una forte centralizzazione con una sovrapposizione tra lotta al sovversivismo politico a quella del crimine organizzato in cui l’elemento comune era l’apparente minaccia all’integrità dello Stato. Gli abusi di polizia nel periodo liberale colpivano soprattutto la delinquenza politica – una categoria in cui erano inclusi soprattutto gli anarchici – e le cosiddette classi pericolose. Chi fossero queste ultime era poco definito, ma generalmente riguardavano tutte quelle persone considerate come devianti: i marginali, i poveri, i disoccupati, i vagabondi, le prostitute e i gigolò, gli omosessuali.

Vi era, quindi, una categorizzazione di genere e di classe che si rifletteva sulla realtà spaziale delle città. Il fatto che si cercasse di confinare e di rendere riconoscibili certe categorie di persone in determinati luoghi o con certe connotazioni fisiche facilitava il mantenimento dell’ordine pubblico. Il legame tra decoro e degrado – il primo considerato confacente all’ambiente non pericoloso, il secondo il suo contrario – è rimasto una costante: lo si ritrova nelle teorie di controllo spaziale, come la Teoria delle finestre rotte di origine statunitense, ma anche in certe prese di posizioni di alcuni esponenti politici italiani.

Il fascismo ha dato una struttura più repressiva alla polizia.

Da un lato la promozione della nascita di polizie speciali –  precursori, per quanto con intenzioni e contesti marcatamente differenti, del Nucleo speciale antiterrorismo nel 1974 e del Raggruppamento operativo speciale nel 1990  non necessariamente legate al vincolo territoriale e capaci di sfaldare i gruppi dall’interno facendo ricorso alla pratica dell’infiltrazione –

Dall’altro lato, in epoca fascista vennero approvati il Codice penale (1930), conosciuto anche come Codice Rocco, e il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS, 1931), ancora in vigore. In entrambi i casi voci critiche nella politica italiana si sono levate nel dopoguerra e diversi progetti di sostituzione, in particolare del TULPS, si sono susseguiti negli anni, ma nessuno ha mai superato l’approvazione del Parlamento.

Nonostante le limitazioni e le garanzie in senso democratico imposte al Codice e al TULPS, la loro permanenza ha facilitato l’adozione di misure repressive, soprattutto negli anni Settanta o in occasione del G8 di Genova.

Da Scelba alla DIGOS

Nel quadro della riorganizzazione dell’Italia postbellica, sin dal 1944 gli Alleati promossero una riforma della polizia italiana volta alla demilitarizzazione e alla decentralizzazione. Ciononostante, una parte della classe politica italiana preferì confermare il modello centralizzato e militarizzato convertendo in legge (1949) il decreto del 31 luglio 1943 n.687 del governo Badoglio.

Nella riorganizzazione della polizia un ruolo fondamentale lo ebbe Mario Scelba, ministro degli Interni democristiano per tre volte negli anni compresi tra il 1947 e il 1962. Scelba pose fine al processo di epurazione reintegrando molti degli ufficiali espulsi, appoggiando l’allontanamento del personale proveniente dalla Resistenza e immettendo quello della polizia coloniale. Nacque una polizia uniforme, compatta e fedele al governo concepita come strumento per reprimere i fermenti sociopolitici e dipendente dalle scelte dei governi. Scelba, anche per il contesto della Guerra Fredda, adottò una linea politica dura e repressiva, potenziando i reparti celere creati dal predecessore socialista Giuseppe Romita nel 1946.

Tra il 1947 e il 1954 furono oltre cento le vittime tra braccianti, contadini e operai. Se dei morti nei confronti di piazza si discuteva e si aveva notizia, delle violenze compiute nelle caserme o nei luoghi di reclusione si sapeva ben poco. A denunciarle fu, nel 1953, il socialista Lelio Basso con un libretto dal titolo La tortura oggi in Italia, ma le conseguenze della pubblicazione furono minime.

Negli anni Sessanta e Settanta permase un generale ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine, in cui ancora si ricorreva alle connotazioni politiche e delle classi pericolose – si pensi ai casi degli anarchici Giuseppe Pinelli e Franco Serantini. All’inizio dei Settanta, comunque, nacque in seno alla polizia il movimento riformatore che portò alla legge del 1981, la cui portata fu però limitata da una serie di scelte, complice anche il contesto della tensione, compiute dai governi in carica in quegli anni. L’approvazione della legge Reale (n.152) del 1975 facilitò il fermo preventivo accentuando la non incriminazione dell’uso di armi da parte della polizia.

Nel 1978, inoltre, venne creata la Divisione investigazioni generali operazioni speciali (DIGOS). Erede del casellario politico generale dismesso nel 1968, la DIGOS si occupa di reati politici o con finalità politiche e ha funzioni simili a quelle di un servizio di intelligence nell’aspetto di raccolta delle informazioni e risponde direttamente al ministero degli Interni. Sempre nel 1978 vennero creati i NOCS (Nucleo operativo centrale di sicurezza) della polizia e i GIS (Gruppo intervento speciale) dei carabinieri. Reparti di questo tipo sono assimilabili alle Paramilitary Police Units (PPUs): reparti di polizia altamente specializzati, soprattutto nella gestione di situazioni in cui vi è la presenza di gruppi di uomini armati e nel terrorismo, che riprendono dall’esercito parte dell’organizzazione e della gerarchia.

Una riforma mancata?

La riforma del 1981 ha introdotto interventi significativi, ma si è focalizzata più sui diritti dei poliziotti come lavoratori che sulle strategie del corpo in difesa delle libertà democratiche.

La portata limitata della riforma è stata evidente già nel caso delle torture ai danni di alcuni membri delle Brigate Rosse durante le indagini sul sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Anni dopo venne confermato che questo non fu un caso isolato, ma parte di un “metodo” avvallato anche dal ministero dell’Interno che prevedeva la presenza di una “squadra speciale” esperta negli interrogatori violenti.

A ciò si può aggiungere il caso di Salvatore Marino, morto per le violenze e le torture ricevute nel corso di un interrogatorio nel 1985, e i report di Amnesty International sulle violenze diffuse da parte delle forze dell’ordine tra gli anni Ottanta e Novanta, arrivando poi al G8 di Genova del 2001. Oltre alle modalità operative e di ordine pubblico, nel capoluogo ligure sono emerse delle problematiche riguardanti la dipendenza delle forze dell’ordine dal potere politico, considerata la presenza del vicepremier Gianfranco Fini, esponente di Alleanza Nazionale, e di altri quattro membri del suo partito nella sala operativa dei carabinieri.

G8 di Genova del 2001
G8 di Genova del 2001

Cosa resta dopo Genova

Dopo Genova la violenza continua ad essere un fenomeno diffuso. Lo dimostrerebbe il ricorso ai reparti antisommossa non sempre giustificato nell’utilizzo della forza, come nel caso delle manifestazioni di studenti liceali nel 2022 a Milano e Torino. La violenza, comunque, avviene soprattutto in luoghi in cui le forze dell’ordine che vogliono abusare del proprio potere possono farlo cercando di garantirsi l’impunità, come le caserme e le carceri. Anche perché in Italia, a differenza di molti paesi membri dell’Unione Europea, non esistono agenzie esterne di controllo sull’operato della polizia.

Casi come quelli di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi mostrano il permanere di una caratterizzazione basata sulle “classi pericolose” e di uno spirito di corpo teso a difendere, anche con depistaggi e occultamenti delle prove, i responsabili che trova riscontro anche in parte della classe politica – nel caso di Verona esponenti della maggioranza di governo hanno commentato sostenendo la necessità di dare maggiori garanzie a chi lavora per la sicurezza.

La persistenza di continuità di pratiche e mentalità repressive la si riscontra anche nella gestione dei Trattamenti sanitari obbligatori (TSO). Nonostante la legge Basaglia (1978) abbia stabilito la decriminalizzazione del malato psichiatrico e il TSO sia stato concepito come strumento di aiuto alle cure, una serie di casi dagli esiti tragici, come quello dell’anarchico Franco Mastrogiovanni, di professione insegnante, dimostrano un cortocircuito rispetto alle intenzioni. Non da ultimo, il fatto che nella maggioranza dei casi l’accompagnamento nell’esecuzione del TSO venga affidato alle forze di polizia, non senza lamentele da parte di queste vista la mancanza di preparazione per la gestione dei bisognosi di cure.

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