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“Vogliamo la trattativa, non la morte della Fiat”: gli anni Ottanta e le trasformazioni del lavoro


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Per chi, come il sottoscritto, ha scoperto la politica a Torino all’inizio degli anni Ottanta, la cronologia non può che fare riferimento alla vertenza aziendale alla Fiat dell’autunno 1980.

Una lotta destinata alla sconfitta

Durante l’estate la Fiat comunicò a 15 mila dipendenti il loro licenziamento. La reazione degli operai fu immediata, vennero bloccati la produzione e i cancelli delle fabbriche per 35 giorni.

Sul piano sindacale, però, era evidente come la lotta fosse destinata alla sconfitta: l’azienda era effettivamente in difficoltà, anche perché aveva provocato un esubero di manodopera attraverso una rete di imprese cui aveva concesso in appalto funzioni produttive con lavoro precario e sottopagato. Dentro la fabbrica servivano meno operai. A Torino, accanto alla solidarietà di molti, si avvertiva chiaramente una maggioranza silenziosa spaventata dalla prospettiva di una crisi irrimediabile dell’industria-simbolo cittadina.

Quando, con il consenso del governo, venne proposta la cassa integrazione a zero ore – e non a rotazione – per 23 mila dipendenti, senza alcun impegno dell’azienda di riassumere più tardi almeno una parte dei lavoratori sospesi, nacque – spontanea e organizzata insieme – la manifestazione dei “quarantamila” nel centro di Torino per chiedere la fine dello sciopero.

I sindacati a quel punto firmarono l’accordo pur sapendo che si trattava di una sconfitta e nelle assemblee convocate per approvarlo il dissenso operaio fu esteso.

Anni di svolta

Negli anni successivi compresi come, in effetti, quella vicenda torinese si collocava all’interno di una svolta nella storia del Novecento: tra il 1979 e il 1980 vi furono l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss, l’arrivo al potere di Khomeini in Iran, le vittorie della Thatcher e di Reagan, l’inizio della nuova Guerra fredda e della corsa al riarmo e in Italia la crisi definitiva della solidarietà nazionale.

Ma anche sul territorio torinese si avvertiva come il contesto fosse rapidamente cambiato. I legami tra il movimento operaio, i partiti e le associazioni nei decenni precedenti avevano creato quella che con termini gramsciani si poteva chiamare una “densa società”.

Società densa / Società larga

Una società civile, cioè, organizzata, attiva, capace di un rapporto insieme maturo e conflittuale con il potere politico da cui erano scaturiti processi collettivi di emancipazione e di progresso sociale. Strade affollate, occasioni continue di dibattito e di conversazione, le caratteristiche, insomma, di quelle che, in altro modo, Leopardi definiva le “società strette” della sua epoca, quelle che considerava più avanzate, a cominciare dalla Francia, in cui attraverso il dibattito pubblico si stabilivano nuove regole e nuovi valori su cui cercare di conformare le scelte individuali.

L’alternativa, negativa, era la “società larga”, presente in molti Stati italiani dell’epoca, una società senza corpi intermedi tra il potere e gli individui, in cui i costumi, anche virtuosi, all’interno del proprio nucleo familiare, non si trasformavano in scelte pubbliche collettive. Il diffondersi della “società larga, nel corso degli anni Ottanta, era strettamente legata, dunque, ai fenomeni di frammentazione del mondo del lavoro e al diffondersi dell’individualismo.

Le conseguenze negative di questi processi si manifestarono chiaramente quando il tema dell’immigrazione, alla fine di quel decennio, divenne centrale nel dibattito politico.

Doppio standard

La migrazione interna a Torino dal Sud, e più in generale dalle zone di campagna, degli anni Sessanta era stata difficile da governare, ma la rete di solidarietà sul territorio rappresentata dai partiti politici, dai sindacati e dalle associazioni laiche e cattoliche, aveva svolto un ruolo prezioso per favorire i processi d’integrazione. Un socialista siciliano, un comunista pugliese appena arrivato poteva bussare alla porta di una sezione torinese del proprio partito ed essere accolto prima di tutto come “compagno”.

Quando arrivarono a Torino i primi gruppi consistenti d’immigrati stranieri, tra i più ostili ad accoglierli vi furono proprio molti “ex migranti del Sud, i quali temevano di perdere la stabilità e il livello di benessere raggiunto.

In una società dalle maglie sempre più “larghe” e in assenza di leggi quadro per regolare il fenomeno, i nuovi emigrati, di fatto quasi tutti clandestini, finirono nelle mani delle organizzazioni criminali, favorendo così la formazione di stereotipi difficili da combattere: il giovane arabo spacciatore di eroina o la donna africana prostituta.

Propaganda dell’invasione

Non fu difficile capire come la sfida si giocava, ormai, nel contrasto tra la realtà – la conoscenza precisa dei numeri, della reale consistenza del fenomeno – e la rappresentazione della realtà, trasformata in propaganda contro “l’invasione” o, oggi, “il rimpiazzamento etnico”.

La sfida per affermare un “senso comune” alternativo alle rappresentazioni della realtà è più difficile nelle “società larghe”, al cui interno si cerca di sostituire il ruolo positivo dei corpi intermedi, di una società matura capace di selezionare la classe dirigente attraverso un sano conflitto politico, con un potere sempre più “leaderistico” e autoritario. In definitiva, dunque, la crisi attuale della sinistra e della democrazia è difficile da comprendere senza ripensare alle trasformazioni del mondo del lavoro di quell’inizio degli anni Ottanta e alle loro conseguenze di lungo periodo sulla struttura delle nostre società.

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