#Genova2001
“Voi G8, noi 6 miliardi” era lo slogan del Genoa Social Forum.
Era lo slogan scandito dal popolo – vasto e plurale – che si ritrovava a Genova per il contro vertice in occasione del G8 del 2001. Si era allora all’apice di un’ondata di partecipazione diffusa rappresentata dal movimento altermondialista, emerso a livello globale con le proteste in occasione del vertice del WTO del 30 novembre 1999 a Seattle. Più di 50.000 persone scesero in strada il 29 novembre del 1999 a Seattle, per manifestare in occasione della conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio. Ambientalisti, comunità indigene, associazioni di base, lavoratori, studenti e disoccupati: nasceva quello che passerà alla storia come “il popolo di Seattle”, un movimento che non si opponeva solo alla globalizzazione liberista ma si nutriva di alternativa e intonava “un altro mondo è possibile”.
Oggi ricordiamo il ventennale di un evento che ha rappresentato uno spartiacque esistenziale e politico nella vita di molti, oltre a una netta cesura tra un prima e un dopo nell’agenda politica italiana e mondiale: il G8 di Genova e le manifestazioni di contestazione che hanno avuto luogo tra il 19 e il 22 luglio 2001, seguite poi dall’attacco alle Torri Gemelle del settembre successivo. Uno spartiacque che per molte e molti ha significato, dopo di allora, perdere la voce, misurarsi con la difficoltà di raccogliere l’eredità politica di quelle giornate, con la fatica di interpretare quei messaggi ecologisti, ambientalisti, pacifisti, antiglobalisti, in un senso non radicale, ma autentico e di proposta.
Una difficoltà per la sinistra istituzionale di allora, affascinata – come osserva Gianfranco Bettin – dall’idea della Terza via e che proponeva di risolvere il dilemma socialismo-capitalismo aderendo all’opzione neoliberista e dunque non cogliendo la portata dirompente di quelle istanze.
19 luglio 2001
La mattina del 19 luglio 2001 si aprirono le manifestazioni per una globalizzazione alternativa. Scese in campo una molteplicità di attori sociali mossi da istanze variegate, ma che trovavano un punto di aggregazione nel rigettare la direzione univoca che i “grandi paesi a capitalismo avanzato” imprimevano “all’ordine mondiale”. Nel corso di quelle giornate, quel che accadde nelle strade, nelle piazze e nelle scuole di Genova fu presto ridotto a pura violenza. Il diritto fondamentale a riempire lo spazio pubblico con il proprio dissenso si confuse con il ribellismo, e la prassi di un pezzo del movimento di allora sembrò legittimare una repressione indiscriminata da parte delle forze dell’ordine.
Se però, come scrive David Bidussa, “gran parte della riflessione pubblica si giocò già allora sulla violenza subìta, sulla libertà violata, sulla sospensione dello Stato di diritto nei giorni del G8”, oggi è importante spostare il focus sul caleidoscopio di temi e di soggettività politiche che animavano il movimento del Social Forum, con un’agenda politica la cui indiscutibile attualità spinge ora a chiedersi perché quella carica politica sia rimasta sottotraccia e per lo più inascoltata dalla sinistra istituzionale, la quale non seppe far compiere uno scarto al suo “registro mentale prima che politico”, come scrive Bidussa rimandando alle riflessioni dell’economista Jacques Généreux, pubblicate dalla rivista Esprit in relazione al Manifeste pour l’économie humaine.
Come scrive Gabriele Proglio, le dimensioni del conflitto erano molteplici e l’insieme dei punti di vista di coloro che parteciparono alle giornate di Genova 2001 restituisce quella grande varietà di istanze rivendicative: sviluppo contro sottosviluppo, uso equo delle risorse contro ricchezze accentrate, libertà di circolazione contro diritti esclusivi di cittadinanza, pacifismo, ambientalismo, lotte per l’autodeterminazione delle comunità oppresse.
Oggi, guardando ai temi che muovevano le varie anime di quella mobilitazione di portata e risonanza internazionale, è lampante la capacità del Social Forum di allora di vedere e anticipare istanze e problemi urgenti del mondo di oggi. Le persone che hanno dato corpo alle “primavere arabe”, al movimento ambientalista dei Fridays For Future o a quello antirazzista della rete Black Lives Matter, di nuovo reclamano il diritto a un mondo diverso e la libertà di poterlo rivendicare pubblicamente oltre il veto della censura e il rischio di una repressione violenta. La sfida per questi movimenti, ciò che può valere come insegnamento dall’esempio di ieri che oggi ricordiamo, è costruire una dimensione di laboratorio politico che superi la frammentarietà e sia capace di pensare in maniera progettuale un programma di alternativa.