Il 25 maggio 2020, lo stesso giorno in cui a Minneapolis si assisteva all’evento che avrebbe determinato il riaccendersi di un movimento antirazzista su scala globale – l’assassinio di George Floyd –, a Roma veniva annunciata la prossima apertura di una nuova sezione del Museo delle Civiltà.
In occasione della ricorrenza della Giornata mondiale dell’Africa, all’EUR veniva presentato il progetto del nuovo allestimento del Museo Italo-Africano intitolato alla giornalista Ilaria Alpi, ovvero la futura (ri)esposizione, assieme ad altre donazioni e acquisizioni, delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma, a 50 anni di distanza dalla sua chiusura.
L’accostamento tra due eventi così distanti – e certo non confrontabili sotto alcun punto di vista – spinge a riflettere su due fenomeni che interessano il presente del nostro paese.
In primo luogo, registrare la straordinaria risposta derivata dall’episodio d’oltreoceano mostra come l’Italia continui a guardare fuori da sé, accogliendo istanze antirazziste di larga scala, che raramente hanno a che fare con il proprio passato (e con il proprio presente): è infatti significativo che, nonostante all’interno dei confini italiani non siano mai mancati crimini a sfondo razziale, l’urgente richiesta di giustizia sociale non assumesse dimensioni così rilevanti da molto tempo.
In secondo luogo, prendere atto del limbo espositivo in cui le collezioni romane sono state relegate per decenni[1], consente di mettere in luce come la mancata presa di coscienza del passato espansionista italiano impedisca ancora all’Italia di vedere quelle eredità coloniali e razziste che intaccano il tempo e lo spazio che oggi abitiamo. Come in un cortocircuito, se dunque il non voler vedere quella componente del proprio passato (intrisa di violenza, discriminazione e appropriazione fisica e culturale) porta a rivolgere l’attenzione altrove, proprio il guardare fuori da sé contribuisce a sua volta al silenziamento di quell’esperienza coloniale italiana, ancora diffusamente considerata una parentesi senza ricadute nella contemporaneità e, di fatto, circoscritta alla sola parabola fascista.
Ripercorrendo la storia discontinua dell’ex Museo Coloniale di Roma si può prendere atto di come, invece, l’esperienza espansionistica italiana abbia ampiamente superato le presunte cesure determinate dal regime fascista[2]. Fondato nel 1914 con lo scopo di educare gli italiani alla cultura coloniale e di celebrare le allora recenti conquiste d’oltremare, l’istituto rimase chiuso per dieci anni a partire dal 1937, appena un anno dopo la proclamazione dell’impero; venne riaperto nel 1947, per chiudere definitivamente nel 1971. Le raccolte romane hanno dunque accompagnato l’intero progetto colonialista italiano – sopravvivendo anche al suo sgretolamento sancito dalla perdita ufficiale delle colonie, nello stesso anno della riapertura del museo (1947) – giungendo fino a noi come tracce tangibili di questo passato.
In un contesto come quello italiano, in cui nessun museo ha rivestito un ruolo paragonabile a quello svolto in area europea da grandi istituti di origine coloniale, analizzare e ripensare le molteplici collezioni disseminate sul territorio costituisce un’urgenza culturale e un impegno civile ormai necessario. Se da un lato, infatti, per il caso del museo di Roma oggi assistiamo all’annuncio di un riallestimento critico che dal punto di vista programmatico si dimostra interessato ad indagare la storia coloniale italiana e a riflettere sulle relazioni contemporanee che legano Italia e Africa ex-coloniale (scegliendo significativamente di intitolare l’istituto alla giornalista uccisa a Mogadiscio proprio mentre indagava i rapporti coevi tra Italia e Somalia); per l’altro verso, esiste una molteplicità di raccolte di origine coloniale caratterizzate invece da un’inerzia allestitiva e tuttora esposte nei musei italiani[3], che esige che questo ripensamento sia allargato su scala nazionale.
Di fronte a istituti museali che, per alcuni versi, sono ormai divenuti musei di loro stessi, è necessario invertire la prospettiva e guardare a queste collezioni non tanto come ad una rappresentazione delle identità che pretendono di raccontare, quanto ad un riflesso della società che le ha generate e prodotte. È necessario, dunque, mettere in discussione l’autorevolezza assertiva del museo, per fare in modo che le collezioni diventino un pretesto per aprire uno spazio di riflessione in cui le identità vengano messe in discussione e negoziate e in cui, soprattutto, la società possa leggersi e riconoscersi. Come scrive Anna Chiara Cimoli, la necessità oggi è quella di “produrre delle letture delle collezioni adeguate alle istanze del proprio tempo: istanze relative soprattutto alle identità e alle memorie […] ma che sempre più […] includono anche la dimensione della lotta sociale”[4]. Letture, quindi, che siano esito anche di una progettazione condivisa e di una riscrittura collettiva affinché il processo di rinnovamento sia davvero radicale: è solo la dimensione plurale e dialogica – generata specialmente dalla partecipazione attiva delle molteplici comunità diasporiche oggi in Italia[5] – che può costituire il giusto prisma attraverso cui reinterpretare il patrimonio museale di origine coloniale e riportare alla luce le centinaia di storie custodite dagli oggetti ancora esposti.
[1] Per completezza, si segnala una prima esposizione temporanea di parte della raccolta – la mostra “Impressioni d’Africa” al Museo delle Civiltà – avvenuta nel 2018 (l’anno successivo all’acquisizione delle collezioni da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), nonostante essa non abbia costituito un cambio di passo radicale, quale vorrebbe essere invece il progetto annunciato a maggio 2020.
[2] Cfr. Antonio M. Morone (a cura di), La fine del colonialismo italiano. Politica, società e memorie, Le Monnier, Milano 2018.
[3] Si fa riferimento qui al caso rappresentativo descritto in Monica Zavattaro, Le collezioni etnografiche del Museo di Storia Naturale di Firenze: storia e prospettive museologiche e museografiche, in “Museologia scientifica. Nuova serie”, 2014, n. 8, pp. 56-66.
[4] Anna Chiara Cimoli, Riscritture identitarie. I testi museali alla prova delle trasformazioni sociali, in Maria Chiara Ciaccheri, Anna Chiara Cimoli, Nicole Moolhuijsen, Senza titolo. Le metafore della didascalia, Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2020.
[5] Come esempio di progetto sviluppato con queste finalità, rimanendo all’interno del contesto del Museo delle Civiltà, si segnala l’esperienza della mostra “[S]oggetti migranti. Dietro le cose le persone” (Museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini”, 2012-2013). Rosa Anna Di Lella, [S]oggetti migranti, in “Visual Ethnography”, 2013, vol. 2, n. 2, pp. 89-108.