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Scene di guerra, spazi di disorientamento


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Il premio Nobel Svetlana Aleksievic ha definito la scrittura un atto di protesta interiore. Giornalista, scrittrice, ha raccontato la caduta dell’URSS, la guerra sovietica in Afghanistan, i sopravvissuti al disastro nucleare di Cernobyl.

Racconti corali, dettagliati, a cospetto dei quali Aleksievic si fa da parte, sceglie la forma del monologo per riportare le centinaia di testimonianze che raccoglie in anni di lavoro sul campo, virgoletta e lascia la scena a chi ha vissuto dolori e traumi spesso nell’ombra. Facendosi da parte, mettendosi in ascolto Aleksievic sposta la polvere dell’oblio, libera gli eventi storici dalla memoria che diventa meccanica messa in fila degli eventi a cambia punto di osservazione. La guerra tra URSS e Afghanistan viene raccontata per voce dei giovani soldati bielorussi inviati a combattere negli anni Ottanta, per voci delle loro madri, delle infermiere che li hanno curati o peggio visti morire.

Aleksievic non vuole ricostruire gli eventi, vuole definire una mappa delle emozioni che non scada mai nel sentimentalismo.

Sa che la commozione senza comprensione non serve, analogamente sa che la messa in fila degli eventi privata della biografia di chi li ha vissuti, resta mera contabilità. Viveva in un mondo ostile, circondata da chi riteneva che ‘la guerra non ha volto di donna’ (da cui il titolo di uno dei suoi libri piu’ importanti). Invece la guerra aveva eccome un volto di donna, e di donna soprattutto aveva la voce.

Ha scritto Aleksievic qualche anno fa: “il lavoro dell’intellettuale è avvicinarsi sempre di piu’ alla realtà. Se però non si riesce a mettere a fuoco il senso di questa ricerca ne viene fuori solo il magazzino degli orrori. Dobbiamo chiederci come liberare i nostri testi da ogni incrostazione emotiva, come trasformare in arte, in parola, ciò che nella vita reale può farci svenire. Descrivere lentamente la morte di un uomo non è anestetizzarla, è dire che non è giusto morire così.”

Come si racconta oggi, la guerra? Come si avvicina la guerra a chi da generazioni non la vive? E ancora, la guerra che raccontiamo oggi, che guerra è?

Questi sono gli interrogativi che ci poniamo oggi, vent’anni dopo la tragica morte di Maria Grazia Cutuli in Afghanistan.

Mi è capitato in queste settimane di riguardare alcune fotografie che la ritraggono, sorridente, circondata da cittadini afgani, seduta in un mezzo militare, il velo in testa, o gli occhiali a proteggerla dal sole. Spesso ha una penna in mano, talvolta un taccuino. Le foto la ritraggono mentre lavora, raramente guarda in camera, guarda piuttosto i suoi interlocutori. Ho riflettuto su questa postura, sulla disposizione del cronista nell’atto del testimoniare, e ho pensato che risieda precisamente lì l’ingrediente indispensabile del buon narratore: la capacità di ascolto, la disposizione a farsi traduttori di mondi, liberando il reale dal rischio di diventare un magazzino degli orrori. Contemporaneamente restituire al reale tutte le sue sfumature, che abbiamo ingabbiato in stereotipi e semplicificazioni.

Qualche anno fa, nel 2016, mi trovavo a Sirte, in Libia, per raccontare la guerra di liberazione della città dai miliziani dell’Isis che l’avevano occupata, imponendo il loro catalogo degli orrori, cadaveri esposti al pubblico, alcuni crocifissi e lasciati in piazza per giorni come monito per gli altri. Era stata una guerra feroce. A dicembre di quell’anno stava finendo, erano rimaste una manciata di case da liberare nel quartiere di Al-Gizah, sul mare. Impossibile capire quanti miliziani ci fossero ancora nascosti nelle abitazioni, impossibile capire quanti i civili intrappolati. Di certo c’era solo il mandato che si erano dati i soldati libici: Non faremo prigionieri. Equivaleva a dire che i miliziani dell’Isis sarebbero stati tutti uccisi. I soldati, giovanissimi, lo dicevano, fieri, mostrando i loro AK-47 mentre andavano a combattere in ciabatte e t-shirt.

Il giorno prima che Sirte venisse dichiarata ufficialmente liberata, i soldati libici hanno estratto un giovane dalle macerie, il volto segnato dalla fame e dalla sete, la barba lunga e incolta, indossava un paio di pantaloni, verde mimetico, lacerati in più punti, sopra una maglietta cui erano state strappate via le maniche. Mentre il soldato libico lo strattonava, si intravedeva il torace del giovane, così magro che si potevano contare le costole. Il giovane miliziano estratto dalle macerie era disarmato, non un’arma, non una cintura esplosiva. Per il diritto internazionale era un prigioniero. I soldati hanno cominciato a sparare in aria, tutti insieme come celebrando un’euforia collettiva.

Finché uno dei soldati ha sparato al prigioniero. I soldati continuavano a urlare. Tutti insieme, sempre più forte, fino a diventare un’unica voce. E poi ancora molti spari, sordi, contro quel ragazzo catturato, e disarmato, giustiziato. Ogni tanto guardo le immagini che filmai quel giorno, mi fermo ad osservare.

Il ragazzo – il miliziano catturato – stringe la sua coscia sinistra, un soldato alla sua destra lo sta strattonando per portarlo sul piazzale antistante al mare, l’ultimo lembo del quartiere di Giza ormai raso al suolo. Intorno a lui ci sono decine di soldati, tutti armati. Il volto del miliziano pare diventare quello di un mostro. Alterato dal dolore e dalla paura.

Ogni volta che guardo quella foto trovo un particolare che non avevo notato prima.

L’ultima volta mi sono resa conto che c’è una persona di spalle in basso a destra, ha un camice blu. È un medico. Anche lui esaltato da quel momento di violenza collettiva. Anche lui spettatore entusiasta di un crimine di guerra. Quando mi interrogo come raccontare la guerra, come liberarla dal catalogo delle sciagure, penso sempre a quel momento. E allo smarrimento provato di fronte alle certezze che saltavano.

Da un lato il miliziano dell’Isis, emblema del male che abbiamo per anni descritto come male assoluto, monolitico, dall’altra un medico che esulta per un crimine di guerra.

Dove sono il bene e il male in questa inquadratura? Che fine fanno le certezze di chi racconta?

Ecco, credo che raccontare la guerra oggi significhi essenzialmente questo: essere pronti a percorrere spazi di disorientamento, provare uno stupore antico dinanzi alla brutalità, essere pronti ad accogliere le contraddizioni del reale. È lì che dovremmo condurre il lettore, non già in uno spazio di sicurezza, ma in uno spazio talvolta inospitale.

Solo così, la scrittura – questo atto di protesta interiore – può condurre il lettore in uno spazio in cui non è e non è stato, solo così la scrittura può liberare la realtà dalla gabbia dell’emotività e generare la memoria che unisca gli eventi alle storie.

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