Articoli e inchieste

Riguardàti dal dolore degli altri: le immagini dall’Ucraina, tra orrore ed empatia


Tempo di lettura: minuti

Lei e i figli dovevano attraversare quel ponte già bombardato per mettersi in salvo, mentre lui era trattenuto altrove. Ma il padre, unico scampato della famiglia distrutta da un colpo di mortaio russo a Irpin, Ucraina, non aveva più loro notizie. Allora si è messo a cercarne su Twitter, dove ha trovato quella foto e capito: erano loro. Però non lo ha sentito subito.

“Poi ho notato il trolley grigio che avevo comprato io, il nostro trolley delle vacanze. Solo allora ho realizzato”.

Tornano in mente le parole con cui molti hanno commentato certe immagini sconvolgenti di chi si buttava dalle Torri gemelle in fiamme l’11 settembre 2001: “E poi le scarpe, le scarpe rendevano tutto ancora peggiore”.

Per abbattere le difese che comunque tendiamo a innalzare davanti al dolore degli altri e per gli altri – quelle difese di cui l’incredulità di fronte allo sterminio dei propri familiari è probabilmente il grado estremo – non servono mezzi particolarmente sofisticati: può bastare il particolare di una foto, di un video trasmesso in televisione, di una pagina di romanzo. L’empatia – il cui nome designa appunto il sentirsi uniti all’altrui dolore – non è una questione tecnologica. Sembra ovvio ripeterlo. Eppure c’è chi non smette di cercare proprio scorciatoie tecnologiche per arrivarci, oppure d’indicare spiegazioni di questo tipo se non la vede raggiunta. Negli anni scorsi, di fronte all’epocali migrazioni umane che tuttora insanguinano il Mediterraneo e il Rio Grande, da molte parti – artisti contemporanei, registi cinematografici, organizzazioni umanitarie, con inevitabile seguito d’improvvisati teorici delle immagini e dei media – si è creduto che la via per l’empatia passasse dai caschi di realtà virtuale (VR). È ciò che prometteva (non so dire quanto credendoci davvero) il regista messicano Alejandro González Iñárritu presentando a Cannes, nel 2017, la video-installazione intitolata Carne y arena, che immerge virtualmente i suoi visitatori, uno alla volta, in un deserto dell’Arizona, casco per esplorarlo a 360 gradi e piedi nudi per sentirne la sabbia, allo scopo di far condividere a ciascuno l’esperienza di un gruppo di migranti latino-americani brutalmente bloccati e maltrattati dalla Polizia di frontiera mentre cerca d’entrare di nascosto negli Stati Uniti. Passata alla Fondazione Prada di Milano e infine approdata a Washington, qui Carne y arena aveva addirittura spinto qualcuno ad auspicare che i parlamentari americani, e magari lo stesso Trump, se l’avessero visitata, avrebbero poi ammorbidito le loro posizioni anti-clandestini. In realtà, non solo questo non è successo, ma, per averla direttamente sperimentata, posso dire che, anche nei meglio disposti, il fortissimo impatto emotivo della visita produce soprattutto la frustrazione di sentirsi, come avverte il suo sottotitolo, virtually present physically invisible.

Invece può bastare un’immagine, e non necessariamente visiva, se un suo particolare (le scarpe sfilatesi precipitando, il trolley rimasto intatto) riesce a bucare lo schermo della sua superficie e delle tue difese per venirti a prendere e tirarti dentro il suo mondo.

Se quell’immagine riesce ad agire su qualche elemento che tenga insieme quel suo mondo – sì, un’immagine, come qualcuno ci ha insegnato per un’opera d’arte, può avere un proprio mondo, ma lo dischiuderà soltanto se avremo la fortuna di poter allacciare con lei una relazione diretta – e quello di chi la sta guardando, per far sentire quest’ultimo coinvolto (non semplicemente per fargli capire di esserlo) nella tragedia che essa gli mostra e gli chiede in qualche modo di condividere.

Proprio questo tipo d’effetto è stato più volte deliberatamente cercato da parte ucraina costruendo immagini che talvolta hanno fatto molto discutere. L’attenzione per il dettaglio capace di bucare lo schermo di una foto è particolarmente evidente in quella della ragazzina in posa, col lecca-lecca in bocca e nastri dai colori ucraini a legarle i capelli, mentre imbraccia il fucile del padre, che l’ha scattata e postata su Facebook: un’immagine indubbiamente sapiente, ma forse troppo costruita perché il dettaglio del lecca-lecca, incluso nel titolo, ottenga davvero l’effetto voluto.

Ancora quella ricerca di un effetto empatico muove dichiaratamente il video-montaggio che inscena il bombardamento aereo di Parigi per sollecitare l’aiuto europeo alla richiesta dell’Ucraina di stabilire una no-fly zone nel proprio cielo, spettacolare provocazione mediatica che rischia però di ottenere l’effetto opposto, cioè diffondere tra coloro cui si rivolge l’idea che sia meglio non immischiarsi troppo nelle sorti della guerra, per evitare che le scene del video diventino realtà. Insomma, anche le immagini più potenti restano comunque fragili: per poter ottenere un effetto empatico, hanno bisogno d’intervenire in un ambiente non ostile o indifferente, ma culturalmente disponibile ad accoglierle e guardarle in faccia. Senza dubbio in Italia è stata anzitutto la diffusa presenza di immigrate e immigrati ucraini a contribuire in modo decisivo alla costruzione di quell’ambiente, prima ancora della sapienza mediatica del presidente Zelensky e dei suoi collaboratori.

Per questo – ma innegabilmente anche per altri elementi come il comune colore della pelle o le analoghe matrici europea e cristiana – le immagini della guerra in Ucraina, nel loro complesso, hanno operato con tanta mobilitante efficacia. Per questo l’ambiente su cui esse intervengono resta il terreno decisivo su cui insistere, culturalmente e politicamente, al fine di sedimentarvi ulteriori elementi di condivisione che permettano loro di continuare ad agire con altrettanta efficacia.

Senza coltivare un tale terreno comune, persino le immagini più sconvolgenti possono ben poco, come ormai rischia di succedere anche a quelle dell’11 settembre 2001 rispetto a una generazione di attuali ventenni che nulla è stato fatto per coinvolgere in una memoria condivisa, nel contempo ingiungendo loro di non dimenticare un’esperienza che non hanno vissuto. Di questo passo, rischia di non essere troppo lontano il giorno in cui perderebbe di senso anche l’idea di Zelenski di cercare l’empatia del Congresso americano sottolineando che il suo popolo sta vivendo da settimane qualcosa di simile a quanto accadde negli Stati Uniti quel giorno.


 

La Fondazione ti consiglia

Restiamo in contatto