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Raniero Panzieri: genealogia illuministica della critica del neocapitalismo


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Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal saggio “Raniero Panzieri: genealogia illuministica della critica del neocapitalismo” contenuto in Necessario illuminismo. Problemi di verità e problemi di potere di Michele Battini, Edizioni di storia e di letteratura, Roma, 2018, pp. 125-129.


Dall’analisi delle carte di Panzieri depositate presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli emergono le prove del profondo rapporto tra il neomarxismo di Pazieri e l’Illuminismo. Le tesi che intendo sostenere è il risultato dei miei scavi nell’archivio milanese: i presupposti illuministici della valorizzazione che Panzieri propose di alcuni testi di Marx son o essenziali per interpretare correttamente il suo progetto più originale, quello del “controllo operaio” sulla produzione, come base di una riorganizzazione democratica della società.

[…]

Panzieri dal 1959 avviò un lavoro di «organizzazione culturale autonoma», in contatto con gruppi di intellettuali socialisti o comunisti, a Torino (Rieser, Mottura, Dario e Liliana Lanzardo), Roma (Ester Fano, Asor Rosa, Tronti), Cremona (Montaldi), Milano (Bosio, Della Mea, Salvaco), al fine di contrastare la strategia riformista dell’autonomismo socialista di Nenni, Lombardi e Giolitti e l’inadeguatezza della politica economica dei comunisti.

«Partecipazioni statali: prospettiva di una politica di sviluppo economico in contrasto con la politica dei monopoli (sviluppo a “isole”, disoccupazione, Nord-Sud, squilibri crescenti (…); concorrenza e conflitto delle aziende statali con i monopoli: come impedire che la situazione generale del mercato italiano le porti alla collaborazione (…) che è subordinazione dell’azienda pubblica a quella privata (…)?». Panzieri rispondeva categoricamente: «riforme e programmazione esigono la rottura dei monopoli come condizione e premessa del “piano”» e dello «sviluppo economico organico», ma il movimento operaio non può accettare la «mitologia delle aziende pubbliche» e «dell’intervento cosciente e programmato dello Stato».

Bisogna invece contrastare «l’interesse evidente dei gruppi cattolici» a «continuare la vecchia politica fascista, sotto il cui segno nacque l’IRI» e a «introdursi nel tessuto della struttura monopolistica» con politiche come quella perseguita dall’ENI: la pretesa che «questo Stato» possa utilizzare le aziende a partecipazione statale «per un nuovo indirizzo produttivo (…) equivale ad una semplice e rozza azione di propaganda». Il «neoriformismo» rischiava di rimanere chiuso «in un quadro vecchio» dominato da «Fanfani, espressione politica dei monopoli».

Panzieri denunciava perciò la «falsità della contrapposizione (tra): concretezza riformistica e totalità istantanea rivoluzionaria», perché una «politica di sviluppo economico» non è necessariamente in conflitto con «la lotta nelle strutture (…) e con l’affermazione di nuove forme di democrazia sostanziale e di controllo operaio (…) sul piano della lotta», intesa come «preparazione, prefigurazione delle forme nuove, del potere nuovo» e di «un nuovo modo di produzione, quali si definiscono soprattutto nelle riforme di struttura».

In un appunto inedito (forse del 1957) Panzieri denunciava così la «crisi delle ideologie fondamentali che sostengono le politiche dei partiti operai:

  1. Modello socialdemocratico o neo-socialdemocratico = sostanziale accettazione delle ideologie neocapitalistiche di trasformazione della società borghese nella società opulenta, sublimazione Socialista nello Stato, ecc.
  2. Modello comunista staliniano di tipo “classico” (PCF) = attesa della catastrofe, integrazione nazionale e costituzionale, ecc.
  3. Modelli più raffinati: le politiche costituzionali in Italia (il ruolo assegnato allo Stato, l’intervento economico e la sua funzione capitalistica, la mitologia del consenso parlamentare)».

Solo la «presenza immediata di spinte e obiettivi socialisti e nello stesso tempo la rivendicazione di nuove forme di consenso, di organizzazione, di potere» avrebbe consentito di sviluppare la «critica alle due facce della Costituzione» e di avviare «la possibile costruzione di un modello di democrazia socialista (…), come costruzione teorico-pratica (…): non come garanzia utopistica di perfetta società socialista, ma come preparazione di permanenti strumenti rivoluzionari».

Sembra dunque evidente che, tra 1957 e 1958, Panzieri ritenesse che la prospettiva del controllo operaio potesse essere sviluppata nel quadro delle conquiste costituzionali repubblicane (la «faccia positiva» della Resistenza) e del diritto del lavoro, ·ma che non doves­se essere concepita come «la continuazione dei Consigli di· Gestione» (espe­rienza in cui «la concezione del controllo operaio era stata subordinata ­– ed era stata di fatto oggettivamente annullata – all’elemento collaborazionista relativo alla ideologia di partecipazione alla costruzione nazionale) e alla concezione strumentale (rispetto alle ideologie costituzionali-elettorali)».

La questione fondamentale era infatti «il passaggio (che non sia un salto mistico) tra le “nuove” rivendicazioni operaie e la prospettiva rivoluzionaria che esse (…) pongono»: rivendicazioni nuove – continuava Panzieri – perché formulate dagli «operai “razionalizzati” (addetti macchine ecc.) e (dagli) operai in “camice bianco” dell’automazione», non per conquistare «un “frammento” del potere (manageriale, tecnico) che dà la “scintilla” per la rivendicazione di un nuovo assetto organizzativo e produttivo», bensì per risolvere il contrasto «tra l’assoluta mancanza di potere (alienazione) dell’o­peraio “razionalizzato” e “l’irrazionalità” dell’organizzazione aziendale>>52.J Il controllo non era «scadimento rivendicativo» o «surrogato della con­quista del potere politico», ma doveva essere valorizzato come una strategia per il socialismo che «nasce dalle condizioni ·di fatto attuali, dai nuovi rapporti tra rivendicazione e processo produttivo».

Bisognava organizzare la «massima pressione sul potere capitalistico» nella dimensione aziendale. e nell’intera società economica, perché il controllo costituiva la concreta «preparazione di situazioni di dualismo di potere» a tutti i livelli, nella pro­spettiva dell’avvio di «una crisi generale rivoluzionaria»

Nell’intervento al XXXII congresso socialista di Napoli, Panzieri mosse un attacco alla teoria dell’«equilibrio tradizionale (…) fondato sull’alleanza industriali del Nord – agrari del Mezzogiorno». Sostenne che alcuni «carat­teri nuovi nascono dalla più diretta egemonia dei monopoli, che tendono a esercitare in modo diretto il loro potere su tutta la società (…) dentro e fuori la fabbrica, (…) in termini di dominio integrale, dal basso, dalle strutture elementari e fondamentali fino alle strutture organizzative della società».

Mentre i riformisti puntano al «controllo degli investimenti» e dell’inno­vazione tecnologica dall’alto e con strumenti istituzionali, la strategia del controllo operaio può «operare e incidere soltanto se, dalla fabbrica, l’azione della classe operaia e dei tecnici si porrà al livello dei problemi produttivi». La programmazione pensata dai riformisti socialisti ha inoltre lo stesso limi­te della pianificazione sovietica: “una visione centralizzatrice e una «interpretazione tecnicistica» dell’economia, la stessa che nelle democrazie popolari, ha prodotto le «contraddizioni tra le esigenze dell’economia regolata e dello sviluppo e quelle dell’organizzazione burocratica», dei «piani di fabbrica» settoriali e generali definiti dai direttori aziendali e dagli uffici centrali di programmazione.

Centralizzazione, burocrazia, pratiche tecnocratiche della pianificazione spiegano la ragione «del ritiro dei sindacati nelle società socialiste», il grave fenomeno «del rifiuto operaio di inserimento nel regime» e le rivolte degli operai polacchi, tedeschi, ungheresi.

Ciò che è comune al neocapitalismo e all’economia programmata socia­lista è dunque il «piano». Con il termine «piano» Panzieri intende la razionalizzazione della produzione e del rapporto fabbrica-società in funzione della produttività e dello «sviluppo della tecnica, con i suoi meravigliosi meccanismi automatici e le macchine elettroniche pensanti», e l’«istanza di un’autentica regolazione sociale». Tale idea di piano induce l’«errore di accettare l’oggettività capitalistica», l’organizzazione tayloristica del lavoro, il fordismo che, dagli anni Trenta; avevano rappresentato le risposte alla cadu­ta del saggio di profitto e alle tensioni del mercato autoregolato.

In tal senso, è corretto parlare della «sopravvivenza del capitalismo anche in URSS», perché anche in tale società «il processo lavorativo, in tali condizioni, può restare un potere estraneo all’uomo». L’unica possibile via di fuoruscita dall’oggettività capitalistica e tecnica sarebbe la scelta «di costruire un’og­gettività operaia contrapposta», senza nutrire illusioni sull’aiuto esterno dell’«affermazione sovietica» in un quadro di «futuro capovolgimento dei rapporti di forza internazionali».

La cooperazione semplice, di cui Marx aveva scritto pensando alla fase iniziale dello sviluppo capitalistico, dev’essere considerata solo una forma particolare della cooperazione, del rapporto reciproco tra i produttori nell’organizzazione coordinata del processo produttivo; in quanto tale, que­sta è però estranea agli operai, perché nella cooperazione di fabbrica della grande industria, luogo fondamentale dello sviluppo della divisione del lavoro, gli operai vengono comandati al servizio delle macchine automatiche e l’uso capitalistico di queste (nelle quali s’incarnano «la scienza, le forze naturali e il lavoro sociale di massa») rivela che lo sviluppo tecnologico è manifestazione dello sviluppo capitalistico.

La connessione, la direzione e il coordinamento delle lavorazioni indotte dall’uso capitalistico delle macchine si presenta come «piano» razionale, programmazione capitalistica, dispotismo interno alla fabbrica e razionali­smo amministrativo all’esterno.

«Nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i metodi, le tecniche organizzative ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale, come “razionalità” estranea»: dunque «non la raziona­lità, ma il controllo, non la programmazione tecnica, ma il progetto di potere dei produttori associati può assicurare un rapporto adeguato con i processi tecno-economici globali».

La razionalità tecnica corrisponde peraltro alla natura dispotica dell’attuale organizzazione produttiva, ma può essere «sottomessa a nuovo uso». L’organizzazione capitalistica del lavoro dev’essere perciò combattuta nell’esperienza quotidiana del lavoro, ove l’automazione e la tecnica generano alienazione ma anche conflitto: «nell’accettazione senza riserve del progresso tecnico in quanto tale si nasconde un pericolo che sarebbe errato sottovalutare».

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