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La coscienza politica della piazza LGBT 


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Nel 1982, sul tavolo di una deputata della Democrazia Cristiana, arriva un dossier inaspettato. Si parla dei diritti negati di una comunità in fermento, quella delle ragazze del “MIT – Movimento Identità Trans”. Nelle mani di Maria Pia Garavaglia, cattolica e attiva nel movimento Agesci, c’era il progetto di legge 164, che promuoveva il riconoscimento giuridico delle persone transgender, che fino a quel momento vivevano de iure, e di fatto, in una condizione di illegalità. «Norme in materia di rettificazione di attribuzione del sesso»: la 164/82 ha riconosciuto un iter legale per cambiare sesso e nome all’anagrafe e ha reso l’Italia – in quel periodo storico – un paese all’avanguardia per il riconoscimento dei diritti delle persone trans.  

Di questi e tanti altri episodi storici della comunità gay, lesbica e trans parla il podcast di Giorgio Bozzo “Le radici dell’orgoglio”, diventato un libro che raccoglie la storia del movimento LGBTQIA+ dagli anni Sessanta a oggi. La storia, con l’esempio di una legge ormai superata – ma tuttora in vigorepuò essere utile per capire il presente e riflettere sulla coscienza politica della comunità LGBTQIA+ del futuro.  

Il Pride popolare e criticato

Sabato 29 giugno, Milano celebrerà il ‘suo’ Pride, la chiusura più attesa del mese dedicato alla comunità LGBTQIA+(la comunità) con iniziative sui diritti e di celebrazione dell’“orgoglio”. La macchina del Pride è un meccanismo ben oliato che mette in relazione individualità, città, partner pubblici e sponsor commerciali per confezionare un’iniziativa cult e imprescindibile per la cittadinanza e per la comunità. A Milano gli sponsor – dai “platinum” ai “tecnici” – sono 82 e danno la possibilità al comitato organizzativo di gestire in sicurezza un evento da centinaia di migliaia di partecipanti. Il comitato finanzia anche un “fondo sociale”, una serie di progetti sociali e culturali come “Casa Alba, un rifugio per le donne senza tetto” o l’ “Housing assistito per richiedenti asilo politico LGBTQIA+”.  

Le polemiche e le accuse di “rainbowashing” – la pratica di responsabilità sociale che le imprese mettono in atto per soddisfare le proprie necessità di marketing e gli obiettivi sociali, in questo caso sulle questioni LGBT – sono qui per restare, soprattutto nei feed social. Una parte di queste critiche è stata canalizzata dal movimento transfemminista, che a Milano ha sfilato durante la “Marciona” del 21 giugno scorso, ma è innegabile che il cuore della questione dei diritti delle minoranze risieda altrove.  

 

Lo stato dei diritti

Dicevamo: il presente e la Storia. Il report dell’associazione internazionale ILGA, sullo stato dei diritti LGBTQIA+ in Europa vede l’Italia al trentacinquesimo posto su 48 stati analizzati.

La mancanza di una normativa a protezione di lavoratrici e lavoratori contro le discriminazioni, la tutela frammentata (e demandata ai tribunali) delle famiglie omogenitoriali e dei diritti dei bambini ‘arcobaleno’, i limiti della legge 164/82 – che ha generato la frammentazione del diritto alla salute delle persone transgender, e non fa riferimento all’età evolutiva – sono i punti più problematici della legislazione italiana. Per non parlare della tutela dell’integrità fisica delle persone intersex – che alla nascita presentano patrimonio genetico e fenotipico sia maschile sia femminile – e del contrasto ai discorsi d’odio e omofobi. Tutti punti lasciati per strada dalla mancata approvazione della legge Zan sull’omolesbobitransfobia, lontani da un possibile miglioramento al netto dell’orientamento conservatore e ideologico della maggioranza di governo. 

Tra le leggi e la realtà ci sono le storie della “comunità reale”, puntini di carne e ossa non riconosciuti e non visti dallo Stato: i figli delle coppie lesbiche di tutta Italia, legalmente figli solo della madre biologica; gli attacchi governativi all’ospedale Careggi di Firenze, eccellenza del percorso medico e psicologico integrato per bambini e adolescenti transgender; gli ostacoli al riconoscimento legale dei figli nati con gestazione per altri; le discriminazioni sul lavoro subite dalle persone transgender, tra le più vulnerabili ai crimini d’odio; le “sacche territoriali”, luoghi d’Italia dove l’omosessualità non è ancora accettata e anzi odiata. 

Una provocazione

Se a Milano e nel “Rainbow district” il problema principale che affiora sulla stampa è il divieto di asporto di bevande alcoliche dopo mezzanotte, nel resto della città e d’Italia non va tutto bene. La mancanza di visione e di progettualità a lungo termine interroga la coscienza politica della comunità e di chi la compone: dove si posiziona? Quali lotte sociali ha a cuore e quali coltiva nella collettiva lotta per i diritti? Riuscirà a parlare anche con chi si oppone alle sue rivendicazioni per inventare nuovi margini di discussione politica? 

La mancanza di dialogo e di solidarietà intra e inter comunitaria è l’elemento che appare più evidente analizzando gli ultimi anni di attivismo frammentato: “Canalizziamo la rabbia nella giusta direzione”, spiega Giorgio Bozzo – autore di Le radici dell’orgoglio – “dobbiamo farlo contro noi stessi, se esiste una comunità organizzata. Esiste una categoria di attivista e poi esiste una massa sempre più staccata e allontanata che sta andando verso destra. Il recupero della storia della comunità non è semplicemente un esercizio di intellettuale di spulciare gli archivi. Se noi non recuperiamo questa memoria, da dove veniamo, l’unica cosa che ci rimane è dibattere del nulla”.  

 Foto: Bruno Aguirre, Unsplash

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