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Nuovi approcci all’educazione: Tomas Maldonado, professore militante


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Sono certa che, in una ideale “intervista impossibile” a Tomás Maldonado, una delle domande ineludibili dovrebbe essere: in quale delle sue molteplici vite e dei suoi diversi mestieri si riconosce di più? Sono altrettanto certa della risposta: la sua preferenza, soprattutto negli ultimi anni, andava al suo profilo di docente e di educatore. Quello della formazione era per Maldonado uno spazio ideale nel quale confluivano diversi aspetti della sua personalità.

Era l’occasione per esercitare la sua influenza sui giovani e per ricevere dai giovani le sollecitazioni più stimolanti per continuare a pensare i problemi e le utopie del mondo contemporaneo. Rispecchiava la sua tensione per i problemi dell’emancipazione delle persone e il suo impegno politico, rivelandosi luogo centrale di quel processo di democratizzazione del sapere che Maldonado interpretava come uno dei punti cardinali del progetto moderno. Misurava la sua propensione alla concretezza del fare, tipica del suo approccio progettuale ai problemi, ma anche della sua visione filosofica (“Il pensiero sarà operante, o non sarà”, scriveva).

La formazione, dunque, era il contesto ideale nel quale veder realizzate operativamente le sue proposte didattiche e organizzative, sempre sostenute da un lavoro teorico profondo e sofisticato, ma mai astratto. L’ho sentito più volte ripetere di essere un professore militante (“Non sono mai stato un formatore da poltrona”, diceva), rivendicando di essere stato un instancabile artefice di progetti didattici. E, aggiungo io, è stato anche il principale teorico della formazione nel campo della progettazione della seconda metà del Novecento.

La sua “filosofia dell’educazione”

Il primo elemento della sua “filosofia dell’educazione” è il rifiuto di una didattica basata esclusivamente sull’attività di atelier. Era questa la pratica dominante nelle scuole di arte e di progettazione nella prima metà del Novecento, di cui il Bauhaus (1919-1933) era il principale modello. La rottura con questo modello si consuma con la proposta maldonadiana di una scuola “integrale”, nella quale accanto alle attività tecniche sia lasciato spazio all’”interesse per le idee”. Superata la norma dell’imparare facendo tipica dell’attivismo pedagogico, metodo più idoneo nelle fasi elementari del processo formativo che nella formazione superiore, Maldonado propone di corroborare l’azione progettuale con fondamenti scientifici (le matematiche e gli studi sulla percezione visiva, in primis) e di dar voce alle nuove discipline che si affacciano sulla scena culturale della progettazione nel dopoguerra: la cibernetica e l’elettronica, la semiotica e l’ergonomia.

Maldonado non si accontenta di portare dalla sua esperienza americana l’insegnamento della Progettazione ambientale (1976), e di favorire l’arrivo a Bologna di giovani studiosi provenienti dalla Scuola di Ulm, ma dà vita a un progetto attorno alle discipline ambientali, che si configura come un vero e proprio esperimento pre-dipartimentale. Il Dams aveva accolto nell’alveo di una facoltà umanistica discipline come la progettazione ambientale, l’urbanistica, il disegno industriale, la metodologia della progettazione, connotate da un approccio operativo e pratico.

Modello humboldtiano

La rilevanza e il successo di questi saperi progettuali suggerivano una rottura con il modello universitario humboltdiano, là dove si incardinava sull’idea di solitudine e libertà, nella prospettiva dell’assoluta autonomia di un sapere avulso dalla realtà concreta, chiuso alle esigenze sociali ed economiche. Maldonado intravede l’opportunità di far confluire questi saperi in un Istituto di discipline dell’ambiente (IDA), che ne avrebbe garantito lo sviluppo culturale e scientifico. Ma soprattutto avrebbe consentito di superare quella frammentazione specialistica con cui era affrontata sin lì la tematica ambientale, che invece richiede un approccio scientifico globale, in una visione critica unitaria.

Infine, ma non per ultimo, avrebbe costituito anche un trait d’union con quelle istituzioni territoriali che pianificano e gestiscono l’ambiente fisico e sociale, a tutti i livelli della gestione e dell’amministrazione pubblica. L’IDA si configura dunque come un laboratorio sperimentale di formule didattiche innovative aperte alla realtà esterna, una possibile versione dell’università per problemi applicata al “problema di tutti i problemi”, cioè l’ambiente.

L’ambizioso progetto dell’IDA diventa ancora più chiaro se lo si inserisce all’interno del dibattito sulla riforma universitaria maturato tra la fine del decennio settanta e i primi anni ottanta, che aveva al centro l’introduzione del dipartimento come organismo cardine dell’ordinamento universitario. Sono numerose le prese di posizione di Maldonado su questo tema, molte delle quali sviluppate all’interno del dibattito che il PCI, come altre forze politiche, aveva avviato in vista della proposta di legge in Parlamento.

In ciascuna di queste occasioni viene ribadita la sua visione culturale e politica per una università democratica e aperta, benché sorretta dal rigore della conoscenza sviluppato attraverso la ricerca scientifica. Non sono secondari, peraltro, gli approfondimenti che Maldonado fa su temi come la distribuzione delle sedi universitarie sul territorio, sul rapporto tra grandi e piccoli atenei (il tema del decentramento), sull’organizzazione e la strutturazione di un sistema di serviti territoriali, il legame con gli attori pubblici e privati. Questa visione non ha trovato seguito negli sviluppi dell’università italiana.

Limiti o errori del suo impegno nella formazione

Se, alla fine dell’”intervista impossibile”, si potesse chiedere a Maldonado quali sono stati i limiti o gli errori o le incongruenze del suo impegno nell’ambito della formazione, credo risponderebbe con le parole usate nei confronti dell’esperienza della Scuola di Ulm:

“Siamo rimasti legati alla vecchia problematica del Bauhaus, introducendo nel migliore dei casi, solo piccole riforme. […] Siamo stati riformatori, ma niente di più. Un approccio coraggioso e radicalmente nuovo all’educazione al design è necessario nella nostra attuale civiltà tecnica. […] Le vecchie strutture e concetti non funzionano più in modo soddisfacente. Dobbiamo credere ancora una volta nel potere e nella forza delle idee”.

Allora Maldonado considerava il progetto di Ulm inattuale, perché non era stato capace di comprendere fino in fondo le emergenti problematiche ambientali, di fronte a una società in crescita esponenziale. “C’è una crescita continua senza controllo. Infatti, l’educazione al design, fino ad oggi, ha addestrato principalmente le persone a favorire questa crescita caotica invece di insegnare loro a controllarla.

Dovremmo essere in grado di concepire come sia possibile sviluppare un design che sia in grado di padroneggiare la crescita, senza inibirla”. Nel nuovo millennio la complessità è ancora aumentata, l’ambiente umano deve fare i conti con una nuova realtà, quella che Luciano Floridi ha chiamato infosfera, la rete delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione che forgia la nostra intera società.

Preoccupato da quello che già intravedeva come una degenerazione, preoccupato per il destino della conoscenza, del sapere e della formazione guidata unicamente dalle tecnologie, Maldonado negli ultimi anni si interrogava proprio sulle conseguenze del sistema tecnologico digitale sulla scuola e quindi sul destino delle nuove generazioni.

Forse avrebbe concluso anche oggi così, in maniera critica ma sempre propositiva: “Il problema dell’educazione al design è precisamente che non abbiamo abbastanza idee nuove, e il tentativo di concepirle deve essere il nostro nuovo compito”.

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