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Mostar, la memoria ferma


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Autunno 1993

Mostar, una città divisa tra le forze croato-bosniache che occupano la parte occidentale della città e l’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, a est, dove abitano i musulmani bosniaci.

Il 9 novembre 1993 a colpi di cannone è abbattuto Stari Most, il “Ponte Vecchio”, costruito a metà del XVI secolo, l’unico ancora in piedi.

Le unità croate lo bombardarono per due giorni finché, appunto, la mattina del 9 novembre alle dieci e quindici, il ponte crolla nel fiume. La distruzione del Ponte Vecchio è l’apice della drammatica guerra che i croati conducono contro i propri fino-a-ieri amici, vicini e alleati: i musulmani bosniaci. E sebbene l’azione abbia poca utilità dal punto di vista strategico e militare, l’effetto psicologico sulla popolazione musulmana è enorme. Da quel momento, infatti, la città cessa di esistere come spazio urbano condiviso per trasformarsi in due nuclei attraversati da un vuoto che è la nuova linea di confine.

Ponte di Mostar: linea di confine

Una condizione che non è né invertita né annullata dalla edificazione del nuovo ponte, inaugurato nel 2004, che ha preso il posto dello Stari Most. Oggi il ponte di Mostar, ricostruito con la stessa pietra del ponte abbattuto e secondo lo stesso disegno dell’originale, è un patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, ma continua ad essere percepito come linea di confine e la città, che ha circa centomila abitanti, resta profondamente divisa dal punto di vista etnico e religioso.

Per superare quella condizione occorre intervenire non sulla linea di confine, ma su ciò che fa sì che quella sia ancora percepita come linea di confine.

Che cosa significa?

Per comprenderlo forse conviene tenere a mente un testo che scrive circa un secolo fa un grande storico francese, Lucien Febvre, amico e fondatore con Marc Bloch delle Annales, una delle riviste che hanno non solo rinnovato profondamente l’idea della storia, ma soprattutto hanno stimolato la funzione civile dello storico come operatore di cultura il cui fine è impegnarsi per l’abbassamento (meglio per l’abbattimento) delle barriere culturali tra gruppi umani, cercando di demitizzare il passato che ogni gruppo umano condivide e che spesso assume come fondamento della propria identità (comunitaria, sociale, nazionale).

Frontiere come luoghi di passaggio

In quel testo dal titolo Frontière: étude de vocabulaire historique (in Revue de synthèse historique, giugno 1928, pp. 31-44; ora in Lucien Febvre, Vivre l’Histoire, Laffont – Colin, Paris 2009, pp. 379-389) Febvre sollecita i suoi lettori a percorrere delle strade alternative (mentali, culturali, ….) perché «sapere» è «vero sapere» se si traduce in «fare»,  ovvero se la consapevolezza di qualcosa è in grado di  produrre azione.

Le frontiere, scrive Febvre, segnano luoghi di passaggio, più che linee di interdizione. L’immagine che suggerisce è che i luoghi di confine sono punti di sutura più che di frattura e che compito della politica consiste, appunto, nel proporli come luoghi di sutura, nel fare in modo che lo siano per davvero. La geografia non è mai ciò che c’è, non è l’oggettività, ma ha una storia ed è sempre il risultato dell’azione, degli uomini in quanto individui o associati.

Per questo riflettere sulla geografia come storia della formazione di un contesto implica sapere che niente è automatico ma che ciò che vediamo intorno a noi è sempre il risultato di ciò che facciamo o di ciò che non facciamo.

Percorsi alternativi

Se invece la geografia si trasforma nell’ideologia oggettiva di ciò che c’è, è perché affidiamo a un atto o a una serie di atti (come appunto è accaduto il 9 novembre 1993) di rafforzare la dimensione della inimicizia o del lutto. Detto diversamente: così come esiste un uso politico della storia, esiste anche un uso politico della geografia.

Dunque per muoversi controcorrente, e disinnescare i sentimenti che fortificano l’inimicizia, occorre produrre azioni che mostrano nella pratica che altri percorsi sono possibili.

Rovine della guerra in Bosnia a Mostar

Azioni, ovvero: gesti, atti concreti, spesso cose minime, che dimostrano che una condizione data per oggettiva si può modificare. Di solito queste azioni riguardano atti che riguardano bambini, e sono volte all’educazione alla convivenza, alla conoscenza minima, oppure a progetti di comune cura delle risorse (acqua, per esempio) o la manutenzione di luoghi divertimento, che acquistano la funzione di punti di convivenza.

Un conflitto “ereditato”

Spesso sono azioni che non avvengono spontaneamente, che vanno accompagnate da chi non è coinvolto in prima persona in quel conflitto «ereditato» dalle nuove generazioni, ma che è sempre difficile rimuovere perché assunto come patto di identità del proprio gruppo di appartenenza.

Quelle azioni non necessariamente devono avvenire sulla linea del confine. Perché quel confine – vissuto come «muro» – si abbassi fino a scomparire, occorre che si mettano in moto azioni, si definiscano gesti, da adottare non solo lì – su quella linea calda o che «ancora brucia» – ma molto indietro, nelle «retrovie», nei luoghi dove sono andati quelli che lì erano, o che hanno ascoltato, ma non visto, le storie di lutto, di sradicamento, di esulato o di diaspora di gruppi, famiglie, comunità per trovare, nei nuovi luoghi, rifugio o ristoro o tranquillità dopo lo shock subìto e i lutti.

Senza un’azione di quel tipo, mossa con l’intenzione di contribuire ad abbassare l’odio e la violenza, non si produce avanzamento, ma solo coazione a ripetere, o «tempo fermo».

Mostar: nuova civiltà di convivenza

Superare il trauma, allora, vuol dire trovare molti modi, sperimentare molte tecniche con cui dare forma all’aspirazione di uscire dalla propria condizione di ferita. Un corpo complesso di atti, di gesti, di segni in cui entrano in gioco tutti i linguaggi: quelli della parola parlata, quelli della cinematografia, della fotografia, del teatro come della letteratura, comunque tutti codici dove fondamentale è la parola, il suo uso o dove è richiesta un’operazione di esternazione della sofferenza.

Ricostruire il ponte, è forse l’ultimo gesto e l’ultimo atto di un percorso, non il primo. Una scelta di tipo fideistico priva di progetto e dunque votata a certificare l’impotenza. Diversamente, l’effetto è quello di perseguire una visione idolatrica degli oggetti dove le persone sono solo funzioni e non protagonisti.

La possibilità di dare nuovo corso a una nuova civiltà di convivenza nasce da un percorso esattamente opposto: significa aiutare le persone a ritrovare una soglia minima di confidenza tale per cui si avverta, per rimanere sulla scena di Mostar, il vuoto del ponte che non c’è più e si percepisca la voglia e la necessità che torni ad esserci di nuovo.

Qualsiasi percorso che rimetta le cose al loro posto senza un percorso fatto da umani, ma solo da cose, è privo di significato perché non agisce né sul livello profondo di quella condizione, né sull’immaginario collettivo. Ecco perché la sola ricostruzione del ponte, in attesa che da quella riedificazione «sgorghi l’Eden» o nasca come per miracolo un nuovo tempo, è priva di futuro.  Al più è conferma del presente congelato.

Un investimento di denaro, emozioni, passioni destinato a fallire.  Alla fine, un atto «inutile». Al più «superfluo».

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