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Matteotti, le stragi neofasciste e la memoria torbida 

Il delitto Matteotti fu un omicidio fascista e di Stato. Le stragi nere, tra il 1969 e il 1980, furono anch’esse (neo)fasciste e di Stato. Anche se non furono la stessa cosa, avevano la stessa anima nera.


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1924


Benito Mussolini aveva appena vinto alla grande le elezioni politiche dell’aprile 1924 (grazie all’insipienza e al settarismo delle forze democratiche di fronte al rischio politico incombente, e alla legge elettorale Acerbo, circa pari all’ottusità e alla stolta autoreferenzialità, con rare eccezioni, del centrosinistra alle elezioni del 2022, regalate alla peggiore destra d’Europa). Il controllo di Mussolini sullo Stato e sull’opinione pubblica non era tuttavia ancora pieno. Il caso Matteotti fu una sorta di “stress test” per il regime, che infine lo superò, anche per l’isolamento del leader socialista.

La principale preoccupazione di Matteotti, per tutta la sua esperienza parlamentare, fu proprio la denuncia del sistematico ricorso alla violenza da parte delle squadre fasciste, fin da prima della marcia su Roma, dell’incarico a primo ministro di Mussolini e della sua vittoria elettorale. Le aggressioni, le uccisioni, le intimidazioni, finanziate dagli agrari, contro le leghe dei contadini, i municipi di sinistra, i militanti e dirigenti sindacali, socialisti, comunisti e popolari, stavano diventando una costante.

L’ascesa di Mussolini, tra il 1922 e il 1924, si accompagnava all’integrazione della violenza squadrista nel dispositivo istituzionale. Matteotti lo denunciava incessantemente, perfino con angoscia – certo un’angoscia personale, le minacce erano continue, e anche le aggressioni (ne aveva subita una particolarmente pesante già nel 1921), ma anche intensamente politica, avendo egli ben chiaro che si era entrati in una fase di profonda, autoritaria distorsione istituzionale.

Il recente bel saggio di Concetto Vecchio (Io vi accuso. Giacomo Matteotti e noi, Utet, 2024) restituisce bene questo suo stato d’animo e questa febbrile consapevolezza del processo in atto. Se, certo, non è possibile ignorare il peso delle sue denunce, oltre che dei brogli elettorali, della corruzione del regime e di Mussolini personalmente (come la storiografia ha da tempo documentato, si veda anche solo il classico studio di Mauro Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, 2004, nuova edizione 2024)), l’insistenza di Matteotti sul progetto autoritario perseguito dal regime e praticato quotidianamente dalle sue squadracce, rappresentava una spina nel fianco sempre meno sopportabile per i fascisti.

Eliminarlo, dunque, spegnere una voce così libera e netta, la voce di un uomo che (dopo le prime due elezioni a deputato nel 1919 e nel 1921) era appena stato rieletto in parlamento a furor di preferenze popolari, significava agevolare la strada verso la dittatura – verso le imminenti “leggi fascistissime” (approvate, infatti, tra il 1925 e il 1926).

Il delitto Matteotti rappresentò l’emersione di un dispositivo di repressione e intimidazione che univa, nella complicità, squadristi e apparati di Stato e che li integrava operativamente in organismi di tipo nuovo come la cosiddetta “Ceka”, la squadra di polizia politica interna, precorritrice dell’Ovra (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, istituita nel 1926). Da stress test, dunque, a prova generale del nuovo regime autoritario.

Anni Sessanta – Ottanta

Il regime tardo liberale ha spesso tollerato la violenza squadrista, ma è con l’ascesa al governo di Mussolini, nel 1922, che essa dilaga e agisce insieme a quella di Stato. Con l’avvento del regime, dal 1924 in poi, diviene indistinguibile: è sempre violenza di Stato.

Dopo il 25 aprile 1945, la violenza fascista si ripresenta con varie fiammate, ma s’inabissa. I fascisti si ritrovano nel MSI o in tetri circoli marginali. Il quadro politico è solido, con i governi centristi imperniati sulla Dc. È all’inizio degli anni Sessanta che vedono nuovi spazi. La crisi del centrismo apre la prospettiva di un allargamento a sinistra, con l’alleanza Dc-Psi, perseguita da Moro e Fanfani nella Dc e da Nenni nel Psi.

La svolta preoccupa sia i “maggiorenti” socioeconomici che le gerarchie militari e gli apparati che vedono a rischio interessi e poteri nonché la fedeltà atlantica nel quadro della Guerra fredda. Preoccupa anche settori della Dc e dei centristi, a cominciare dal Presidente della Repubblica, Mario Segni, che guarda invece con entusiasmo a De Gaulle che, con una forzatura, ha modificato in senso presidenziale la Repubblica francese e sta governando con piglio la turbolenta stagione che quel paese attraversa (conflitti sociali interni e decolonizzazione).

In un’Italia attraversata a sua volta da contraddizioni e conflitti, Segni evoca il ruolo d’ordine dell’esercito, dei carabinieri e degli apparati (Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo. Servizi segreti, il centrosinistra e il “golpe”del 1964, Mondadori, 2010). Il convegno dell’Istituto di studi militari “Alberto Pollio” del maggio 1965 a Roma, promosso dallo Stato maggiore dell’esercito, sulla Guerra rivoluzionaria, vede i neofascisti per la prima volta invitati ufficialmente con alcune figure chiave in un ambito così istituzionale. Non ne usciranno più, ritrovandovi peraltro coloro che, già fascisti e mai epurati dopo la Liberazione, vi si erano ben incistati nei due decenni precedenti.

Il dispositivo eversivo che agisce da allora e per circa un ventennio, e che inanella provocazioni, minacce, violenze squadriste, attentati, stragi, cospirazioni e colpi di Stato progettati e tentati, con tutta la giostra di depistaggi, complicità, omertà, protezioni, tale dispositivo integrerà neofascisti (soprattutto di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale) e appartenenti a strutture e apparati di Stato. Avviene nel quadro di un’Italia tuttavia democratica, in cui altri settori dello Stato e delle istituzioni, della politica stessa, contrastano violenze e trame, rigettandole infine, insieme a un movimento democratico e antifascista di massa di cui invece non potette giovarsi l’Italia dei primi anni Venti.

2024

Giorgia Meloni, ricordando Matteotti, ne attribuisce l’omicidio allo “squadrismo fascista”, dimenticando che fu anche un omicidio di Stato, disposto da Mussolini. Pochi giorni prima, aveva attribuito a un generico “terrorismo” la strage di Brescia del 28 maggio 1974.
Per molta parte della destra oggi al governo, e con un certo album di famiglia, più ci si avvicina al nostro tempo e più si annacqua e s’intorbida la memoria, la lezione della Storia.

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