Si è battuta per l’innocenza di suo marito, l’anarchico Pino Pinelli, accusato per la strage di piazza Fontana.
Sola contro tutti, ha smascherato le calunnie orchestrate al Viminale. Con lei, ci ha lasciato una pezzo di storia.
Licia e Pino, una storia anarchica
Le ceneri di Licia Rognini Pinelli sono state deposte accanto a quelle di suo marito, Giuseppe (Pino) Pinelli, nel cimitero anarchico di Carrara.
Erano nati tutti due nello stesso anno, il 1928. Lei a Senigallia nelle Marche, ma subito trasferita dalla famiglia a Milano, dove il padre lavorò come falegname; lui a Milano, mandato a bottega a dieci anni da un artigiano che gli mise in mano i testi dell’anarchia. I due giovani si incontrarono subito dopo la guerra nel posto più fiabesco che si possa immaginare, il Circolo Filologico Milanese, un istituto dove, gratuitamente, si insegnava l’esperanto, la lingua utopica che avrebbe portato la pace nel mondo, una delle maggiori idealità degli anarchici di allora.
Licia e Pino si sposarono ed ebbero due figlie, vivevano in via Preneste, in un microscopico appartamento pieno di libri, dove lei batteva a macchina le tesi di laurea degli studenti della Cattolica e lui faceva il turno di notte in ferrovia.
Il resto è storia, la più brutta storia d’Italia, la storia della strage di piazza Fontana e della ferocia del potere.
Valpreda e Pinelli, le vittime designate
Era la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, quando Licia venne avvertita che “a suo marito era successa una disgrazia”. A tamburo battente, nella stessa Questura di Milano, dal cui quarto piano Pinelli era misteriosamente caduto, il questore Marcello Guida, sorridente, rilassato, comunicava ai cronisti che l’anarchico si era suicidato e che il suo gesto era la prova della sua colpevolezza.
I conti tornavano: Pietro Valpreda, il “mostro”, il “ballerino zoppo” aveva messo la bomba nella banca e c’era addirittura un testimone oculare che lo aveva accompagnato in taxi (!) alla Banca; il suo socio aveva ammesso le sue colpe, con il suicidio. Un gesto proprio degli anarchici, aggiunse Guida, che fino alla fine del fascismo era stato il carceriere di anarchici, comunisti e socialisti del famigerato carcere politico di Ventotene. (Sì, era fatta così l’Italia di allora; il feroce carceriere fascista era il questore della città medaglia d’oro della Resistenza).
Era un piano ben studiato, da mesi. Valpreda e Pinelli, le vittime designate erano state individuate da tempo e la trappola, congegnata al Viminale da una fosca istituzione, l’Ufficio Affari Riservati di Federico Umberto D’Amato e Silvano Russomanno, due vecchi arnesi formatisi nella Repubblica di Salò, aveva funzionato.
Il gruppo neonazista di Ordine Nuovo del Veneto era stato addestrato e finanziato per agire, sicuro che poi sarebbe stato protetto. Appena scoppiata la bomba, gli uomini degli Affari Riservati partirono da Roma in aereo e presero (fisicamente) possesso della Questura e del palazzo di giustizia, sottomettendo, piuttosto facilmente – la procura di Milano conobbe qui la sua pagina più nera – le legittime istituzioni ai loro ordini. Il piano funzionò con Valpreda, ma non con Pinelli che resse alle torture e alle minacce e fu per questo “ucciso innocente” e “precipitato” dal quarto piano della Questura.
La verità, oltre quella ufficiale
Questa versione dei fatti è oggi – dopo mezzo secolo! – accettata da tutti, ancorché a denti stretti, e quasi con fastidio. È venuta maturando solo grazie a una incessante voglia di verità scaturita dalla Milano che fin da subito, ai funerali delle 17 vittime – in quelle ore Pinelli era ancora in vita – fece massa e scudo con il suo “silenzio monumentale” ai tentativi di far precipitare il Paese nella follia.
Licia Rognini Pinelli fu il motore silenzioso di questa epopea. La donna sola che sfida la verità ufficiale e arriva a denunciare per diffamazione il questore Guida, cosa inaudita per l’epoca.
La donna sola (e da subito assistita e protetta da quegli assistenti universitari cui batteva a macchina le tesi) che si batte, testimonia contro la polizia che mente, conserva la privacy di se stessa e delle sue bambine, non molla mai, conserva tutti i ritagli di giornale e gli atti giudiziari, non ha paura a dare la sua versione dei fatti su quello che avvenne nella notte fatale, rifiuta di diventare un personaggio pubblico, vive la sua vita coltivando i suoi interessi culturali, legge (e si rilassa con la sua passione, i libri gialli), studia, ha interesse per le filosofie orientali, non chiede nulla e nello stesso tempo si tiene ben lontana da proposte di ipocrita pacificazione.
Questa è la donna che è stata sepolta a Milano, dopo una vita bella e vittoriosa, lunga quasi un secolo; Licia è davvero la storia di Milano.
C’è un piccolo aneddoto che la riguarda, che mi piace ricordare. Nel 1972 (quindi quasi subito) il produttore Carlo Ponti si innamorò della storia di Pinelli e volle fare un film, per la regia di Giuliano Montaldo, l’autore di quel “Sacco e Vanzetti” che comincia con la precipitazione dell’anarchico Salsedo dal grattacielo della polizia di New York, anno 1920. Montaldo si appassionò all’idea e abbozzò una scenaggiatura. Era basata su Licia, che avrebbe dovuto essere l’attrice Sofia Loren, moglie di Ponti. Lo fecero sapere a Licia, che però rispose: “Sofia Loren? Troppo bella”.
Chissà se l’avrebbero convita? Il film, comunque, non si fece.
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Dell’autore dell’articolo:
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