Il presidente Macron non ha più la maggioranza assoluta, non ha più le due spade del potere presidenziale, come Duverger le aveva definite negli anni Settanta del Novecento; non è questa la condizione di cohabitation (che avviene quando il Presidente perde la maggioranza in parlamento) ma in parte le assomiglia.
La seconda presidenza di Emmanuel Macron nell’aprile 2022 è iniziata con un’andatura diversa e molte novità. Il presidente uscente, dopo una campagna elettorale complicata, è stato rieletto, sconfiggendo ancora la sua competitrice Marine Le Pen dell’estrema destra, ma con uno scarto di voti minore rispetto al 2017: allora la differenza tra i due candidati era stata di ben 32 punti (66%-34%); ora in questa rielezione Macron ha ottenuto il 58,55% dei voti, contro il 41,45% della Le Pen.
Inoltre, il candidato di estrema sinistra Jean Luc Melenchon, che si è fermato al primo turno, ha ottenuto comunque un risultato notevole, superando il 20% dei voti e ponendosi dunque come arbitro importante per la destinazione di essi al secondo turno. Infine, l’astensionismo si è fatto più corposo, con più del 28% degli elettori che ha disertato le urne al secondo turno (segnale non secondario), cosa che non accadeva da molti anni per un’elezione presidenziale.
Agone
La sera della vittoria Macron appare emozionato, mano sul petto quasi a indicare empatia con i suoi elettori e parole ugualmente promettenti, ma consapevoli di difficoltà da sormontare: “Nul ne sera laissé au bord du chemin (…) Les années à venir, à coup sûr ne seront pas tranquilles mais seront historiques (…) C’est avec ambition et bienveillance que je veux pouvoir aborder à vos côtés les 5 années qui viennent“. Così egli sottolinea l’inizio di una presidenza diversa dalla precedente dalla quale egli dice di avere tratto esperienza e aver imparato ad ascoltare la società. Conclude “Je suis le président de toutes et tous”, “Sono il presidente di tutti e tutte“, a sottolineare il suo ruolo di guida imparziale del Paese.
La vittoria è però agro-dolce e a più voci. Infatti, Melenchon lancia il suo guanto di sfida e parla subito di “un troisième tour”, un terzo giro, alludendo alle elezioni legislative del giugno successivo e vedendosi già un possibile primo ministro coabitante.
E giugno arriva presto, esplosivo e montante come l’Estate di Vivaldi. Le elezioni legislative portano la prima vera novità della seconda presidenza Macron, la presenza all’Assemblée nationale di due forze di opposizione: il RN di Marine Le Pen, non più presente dal 1986 in Parlamento, che fa ora il suo ingresso trionfale con ben 89 deputati; e la Nupes, alleanza delle forze di sinistra realizzata abilmente da Melenchon (che comprende La France Insumise, parte dei socialisti usciti da un PS sbriciolato, i comunisti, i verdi), anch’essa soggetto inedito dai tempi aurei di Mitterrand.
Il presidente Macron non ha più la maggioranza assoluta, non ha più le due spade del potere presidenziale, come Duverger le aveva definite negli anni Settanta del Novecento; non è questa la condizione di cohabitation (che avviene quando il Presidente perde la maggioranza in parlamento) ma in parte le assomiglia.
Il Presidente non ha più la consonanza perfetta delle due maggioranze e deve ora fare i conti con un’opposizione parlamentare abbastanza forte; egli non può ora disporre di un potere verticale, ma deve adattarsi a una dinamica diversa: non è absolutus, cioè indipendente nelle sue scelte e nell’esito di esse. Insomma, è tutta un’altra storia che richiede capacità di mediazione e costringe il presidente a cercare possibili alleanze, anche temporanee, nel mare periglioso di un Parlamento non più prono ai suoi voleri.
Parabasi
In questa fase il Presidente va in avanti, comincia cioè ad affrontare i problemi e i temi più importanti. Ha già da due mesi nominato il suo nuovo governo, presieduto da Elisabeth Borne, già prefetta e ministra in altri governi, espressione del centro politico che sostiene Macron, con una lunga esperienza nelle istituzioni.
La nuova ministra si mette all’opera in una situazione delicata nella quale la prima riforma da varare, il fulcro della politica del Presidente, è quella delle pensioni, tasto dolente in una Francia anch’essa toccata dalla crisi, dalle conseguenze della guerra in Ucraina, da una situazione sociale di disagio e scontento.
La proposta di riforma di Macron ha un punto centrale, ossia l’elevazione dell’età pensionabile da 62 a 64 anni e una serie di misure che danneggiano i più giovani e le donne, garantendo condizioni più favorevoli ai “senior” e stabilendo la pensione minima a 1200 euro al mese, cosa poi di fatto vanificata nel procedere delle modifiche al testo.
La proposta appare subito impopolare, poiché scontenta molte categorie di lavoratori e molte fasce sociali: operai, insegnanti, impiegati di livello non alto.
La reazione dei sei sindacati uniti e delle associazioni solidali comincia a serpeggiare già a febbraio e prende una forma precisa con cadenze serrate continuando “à bout de soufflé”. La mobilitazione del 7 marzo, con oltre un milione di persone in corteo (secondo i dati del Ministero dell’Interno), si espande radicandosi sul territorio: i sindacati bloccano importanti raffinerie e i trasporti del Paese, e dichiarano di voler continuare con forme di sciopero variamente articolate. La posizione del governo non cambia e la prima ministra Borne è decisa a mandare in porto la riforma.
Il presidente Macron rifiuta di ricevere le parti sociali e invia loro paternalisticamente una lettera aperta invitando al “senso di responsabilità per il bene del Paese”. Sembra distaccato nel guscio del suo Empireo, spera ancora in una contrattazione che non può avvenire, date queste premesse.
La legge, arrivata al Senato alcuni giorni fa, è passata senza problemi. La prova di fuoco è l’Assemblée nationale dove la maggioranza del Presidente vacilla senza l’appoggio dei Républicains, divisi al loro interno e decisi comunque ad alzare il prezzo.
Frenetiche le consultazioni del Presidente con una Commissione paritaria mista, che dovrebbe fornire proposte e i conti sui voti sicuri a favore. Il governo teme il pericolo tanto che la ministra Borne annuncia che il governo farà ricorso per la dodicesima volta in pochi mesi all’Art. 49 comma 3 della Costituzione, che prevede il voto bloccato, cioè priva l’Assemblée del potere di voto e rende possibile l’approvazione della legge.
Uno strappo, una ferita al metodo democratico che produce sconcerto non solo nelle opposizioni, che annunciano mozioni di censura, ma anche fra alcuni nella maggioranza presidenziale, anche nei due partiti alleati, Modem e Horizons, che temono un indebolimento della legittimazione del presidente.
Place de la Concorde, simbolo antico della Francia democratica, proprio di fronte all’Assemblée nationale, diventa il centro della protesta e di scontro con la polizia, dove gli studenti della Sorbonne in massa raggiungono i sindacati, confermando l’estendersi di una fiammata che assume adesso i contorni di un vero e proprio movimento sociale per composizione, continuità e obiettivi. Un fatto nuovo, questo, con pochi precedenti dopo l’esplosione nel 2019 dei Gilets jaunes, che torna a scuotere la realtà francese.
Esodo, ovvero finale incerto
Macron appare isolato, percepito come il Presidente dei ricchi; criticato da molta stampa internazionale che ne sottolinea la debolezza di fronte a una società in rivolta. I tre attori – governo, parlamento e società – giocano le proprie mosse senza cedimenti: la riforma molto probabilmente passerà, aggirando le mozioni di censura che necessitano di 289 voti favorevoli per potere abbattere il governo, cosa non facile.
Macron ha esasperato l’appetito del potere, un potere che mostra fragilità se si pensa anche che il suo partito, Renaissance, ha inglobato tanti partiti più piccoli, deludendo le iniziali aspettative. La sua riforma-simbolo passerà ma la tela costruita a colpi di falange sarà disfatta dalla Piazza, questa moderna tenace Penelope dei nostri giorni.