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L’eurokeynesismo
e le divisioni della sinistra europea


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Leggi lo speciale editoriale
dedicato al ciclo di Workshop
1989. Sotto le macerie del muro
Testi di
Cristian Scialpi, Fabio Masini, Marc Lazar,
Fabien Escalona, Gerassimos Moschonas, Massimiliano Boni

 

L’eurokeynesismo in Europa

Il tavolo di discussione del quinto appuntamento del ciclo 1989. Sotto le macerie del muro, tenuto presso la Fondazione Feltrinelli, si è posto l’obiettivo di riflettere su cosa sia stato l’eurokeynesismo in Europa, quali siano stati gli snodi cruciali delle politiche economiche
adottate dalle sinistre europee nella seconda metà del Novecento e quali siano stati i fattori che hanno portato alle divisioni delle sinistre europee.

Si è cercato di approfondire, inoltre, la
spaccatura che tali scelte hanno prodotto in maniera più o meno comune nelle sinistre nazionali, tenendo in considerazione le peculiarità locali che hanno caratterizzato i diversi percorsi politici dei partiti socialdemocratici europei.

Per riflettere su queste tematiche si sono riuniti Luigi Vergallo, Marc Lazar, Federico Romero, Michele Di Donato, Fabio Masini e Paolo Zanini; a cui si sono aggiunti poi Niccolò Tommaso Donati, Massimiliano Boni, Domenico Capone, Giandomenico Piluso, Enrico Mannari, Leonardo Casalino, Goffredo Adinolfi, Giuliano, Garavini, Michelangela Di Giacomo, Elena Cadamuro e Alice Raviola in collegamento con gli studenti del corso universitario Storia dell’Europa nell’età moderna dell’Università Statale di Milano.

Due primi interrogativi

Un primo interrogativo che i partecipanti si sono posti è stato quello legato alla natura stessa dell’eurokeynesismo. È possibile parlare di un approccio economico comune diffuso a livello europeo? E cosa significa, per la sinistra del secondo Novecento, adottare politiche keynesiane?

Non sembra che si possa parlare storicamente di un puro keynesismo diffuso nella sinistra europea. Da un lato c’è stata una mescolanza tra il keynesismo e l’elaborazione di politiche economiche affini ai partiti della sinistra di ogni paese; dall’altro, le politiche economiche keynesiane, fenomeno di per sé spurio e variegato al suo interno, sono state utilizzate per racchiudere una serie di interventi economici statali mirati ad agire nel pubblico e a favore della costruzione del welfare state.

Il contesto nazionale

Se, quindi, risulta complesso delineare una linea di continuità in relazione alle politiche economiche della sinistra europea senza parlare delle specificità nazionali, sembra ancor più problematico discutere di un keynesismo europeo o, addirittura, globale.

Fabio Masini condivide con i partecipanti la sensazione che probabilmente non si possa parlare in modo chiaro di un approccio economico sovranazionale di stampo keynesiano.

Emerge l’importanza del ruolo di un’autorità pubblica centrale che diventa promotrice di tali politiche, cosa che in Europa per gran parte degli anni Settanta e Ottanta è assente. Bisognerebbe dunque cercare di discutere di politiche keynesiane fortemente correlate a dinamiche di tipo nazionale e contestuale.

Al netto di questa riflessione, peraltro accolta da tutti i partecipanti, il confronto si articola sul
tentativo di individuare una cronologia che possa chiarire le tappe fondamentali dei partiti
socialisti europei e delle politiche economiche da essi perseguite. Per fare ciò, risulta necessario confrontarsi con il momento che la storiografia riconosce come il tornante della politica economica socialista, ovvero la presidenza di François Mitterrand in Francia dei primi anni Ottanta.

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A cura di Fabio Masini

Il caso francese

Marc Lazar ritiene che, dal 1981 al 1983, non ci sia stato in Francia un trionfo della sinistra neoliberista, ma un tentativo di adottare politiche economiche che potessero sostenere l’offerta
e al contempo salvare e modernizzare il welfare del paese.

Le scelte economiche di Mitterrand, dunque, sarebbero state in linea con le riflessioni interne ai partiti socialisti di fine anni Settanta. Considerare il caso francese come il momento in cui la sinistra europea adotta definitivamente il modello economico neoliberista risulta frutto di una semplificazione
eccessiva.

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Vengono ricordate le ricerche di Mathieu Fulla: è già tra gli anni Settanta e Ottanta, di fronte ai processi di internazionalizzazione dell’economia, che i socialisti iniziano a comprendere che un certo modello di keynesismo nazionale è in declino. Inizia allora la divisione che caratterizza la sinistra europea tra chi cerca un modello di keynesismo globale (che si dimostrerà comunque un fallimento per molteplici ragioni) e quanti sono attratti, invece, dalle idee neoliberiste.

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a cura di Marc Lazar, Storico


Per capirne di più

La stessa posizione è assunta da Michele Di Donato che sottolinea il problema del mito della caduta costruito intorno a Mitterrand nei primi anni Ottanta.

Viene ricordato da quanti anni si rifletteva su un cambiamento della sinistra rispetto al modello economico keynesiano e che, a conti fatti, le riforme in Francia tra ’81 e ’83 (ricordate come “svolta del rigore”) non furono affatto estreme.

Probabilmente la vulgata si sviluppò per via del potere simbolico e per l’immagine che Mitterrand rappresentava per il socialismo europeo.

Proponiamo di seguito un confronto con il caso greco, uscito su Mediapart.fr il 17 ottobre 2023:

Leggi l’intervista al politologo Gerassismos Moschonas

a cura di Fabien Escalona

Ma se, dunque, le politiche economiche dei primi anni Ottanta dei socialisti francesi si iscrivono tutto sommato ancora in un’ottica legata al dibattito degli anni Settanta, quando avviene il punto di rottura? E che forma si dovrebbe dare a una cronologia delle politiche economiche dei socialisti europei?

Per comprendere il momento in cui il modello keynesiano mostra i primi sintomi di una crisi, secondo Federico Romero, risulta necessario individuare le condizioni contestuali che producono, tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la percezione dell’impossibilità o perlomeno della difficoltà di continuare ad adottare un certo tipo di politiche economiche.

Tra queste emergono i massicci fenomeni di deindustrializzazione e di desindacalizzazione di fine anni Settanta che portano con sé una prima frammentazione dei poli sociali di riferimento della sinistra. Comincia così ad alterarsi l’idea di una società come un insieme di blocchi coesi su cui la politica può agire.

Nuovi paradigmi

Allo stesso tempo, inizia ad affermarsi nei governi occidentali un consenso anti-inflattivo sostenuto dall’aumentare della competizione internazionale.

Tutto ciò alimenta quella ortodossia monetaria che metterà in difficoltà le politiche economiche di intervento pubblico e le politiche monetarie espansive tipiche dell’approccio keynesiano, rendendo impossibile
realizzare qualsiasi forma di eurokeynesismo.

Si aggiunge, inoltre, quella rivoluzione antropologica-culturale delle società occidentali che, a partire dalla fine degli anni Settanta, favorisce la nascita di paradigmi individualistici del vivere sociale che, gradualmente, fanno sì che si affermi sempre più la libertà personale e di impresa, a scapito degli altri valori.

Tutta una serie di valori di tipo collettivo e solidaristico, propri del socialismo, vengono messi in ombra. Sembra che l’universo morale e culturale delle sinistre si ritrovi stordito e impreparato.

La svolta degli Ottanta-Novanta

Il momento di svolta viene però identificato a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando un’ondata di privatizzazioni travolge l’Europa e il mondo occidentale. Ciò avviene sia per l’influenza delle idee neoliberiste che si andavano affermando negli anni Ottanta, sia per quella che può essere definita l’ideologia della concorrenza caratterizzata dalla richiesta di investimenti sempre maggiori dei manager di imprese pubbliche ai loro politici.

Richieste queste non sostenibili per i bilanci pubblici, ma allo stesso tempo necessarie per essere competitivi sul mercato dal punto di vista economico-tecnologico. Le privatizzazioni e la liberalizzazione del mercato produrranno effetti economici e monetari che non si erano nemmeno immaginati. Emerge chiaramente la scarsa capacità di previsione da parte del mondo della politica.

Sliding doors

A rappresentare l’ultimo snodo cruciale nell’abbandono di politiche keynesiane da parte delle socialdemocrazie europee, secondo Paolo Zanini, vi sono la caduta del muro di Berlino e la crisi del blocco orientale.

Se da un lato i socialisti pensano di essere emersi come i vincitori nel mondo della sinistra, dall’altro si ritrovano di fronte alle grosse difficoltà di gestione economica che gli anni Novanta presentano. Anche la speranza di una società competitiva che possa arricchire tutti risulterà un abbaglio. L’alternativa della terza via diventerà sempre più attrattiva per le socialdemocrazie europee.

Il tavolo di discussione, dunque, concorda con una periodizzazione che vede gli anni Ottanta
come il momento in cui i socialisti europei al potere sentono la necessità di superare il modello
keynesiano, ma ancora si interrogano su quale sia la via migliore per salvaguardare il welfare
state e la presenza del pubblico nell’economia.

Il ruolo dell’Unione europea

Saranno gli anni Novanta quelli durante i quali avverrà la rottura definitiva all’interno delle sinistre. Si verrà a creare, fenomeno diffuso in gran parte d’Europa, una componente moderata che abbraccia le politiche neoliberiste e una più radicale, che si andrà a cristallizzare e strutturare sotto forma di partito nei primi anni Duemila e che cercherà quasi un ritorno al passato nella gestione dell’economia statale.

Il dibattito si conclude con una riflessione collettiva sul ruolo dell’Unione Europea, fragile negli anni Novanta nello stabilire una politica industriale, economica e di pieno impiego su scala europea, ma allo stesso tempo ora possibile artefice di una svolta, questa volta pienamente keynesiana, nell’economia del continente. Dunque, la domanda posta è chiara:

il PNRR rappresenta la possibilità per l’UE, autorità centrale, di poter avviare una serie di politiche comuni di intervento pubblico? E se così fosse, in che forma?

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a cura di Massimiliano Boni, Corte Costituzionale

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