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Europa tra crescita e declino:
il rebus italiano


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Workshop Feltrinelli: l’eurokeynesismo e le divisioni della sinistra europea


Terza via: mercato e giustizia sociale

Nel 1998 Tony Blair e Gerard Schröder firmano un manifesto che espone i principi di quella che viene chiamata la Terza via socialdemocratica, un percorso alla ricerca della migliore combinazione tra crescita, libera iniziativa economica, uguaglianza sociale.

Nel manifesto si prende l’impegno a controllare il debito pubblico, perché “il denaro speso per onorare il debito pubblico viene sottratto ad altri obiettivi prioritari, tra cui gli investimenti in infrastrutture destinate all’istruzione, alla formazione od ai trasporti”. Venticinque anni dopo, la via si è mostrata corretta? E, in Italia, la sinistra ne è stata ispirata? Con quali risultati?

Coabitazioni e divisioni a sinistra

Una doppia premessa è necessaria: la prima è che in Italia non ci sono mai stati governi solo di sinistra. Le forze progressiste hanno sempre governato con altre moderate, o conservatrici. Nella storia recente (1994-2023) ciò è accaduto sia con i governi da esse guidati – Prodi-I e II (1996 e 2006), D’Alema-I e II, Amato II (1998-2001), fino ai più recenti Letta (2013-2014), Renzi e Gentiloni (2014-2018) – sia con i governi in cui comunque erano nella maggioranza – Monti (2011-2013), Conte-II e Draghi (2019-2022).

La seconda premessa è che ogni volta che una o più forze progressiste hanno assunto responsabilità di governo, hanno avuto una qualche opposizione (parlamentare e nel paese) a sinistra, da Rifondazione Comunista (1996) a Liberi e uguali (2022), sancendo una separazione politica mai del tutto ricucita. 

La legge del “meno uno”

Qual è stata la politica economica dei governi di centro sinistra? Nel 1996 la spesa pubblica ammonta a 187 miliardi di euro (il 52,6% del bilancio), mentre la crescita del Pil registra un incremento dello 0,1%; nel 2021 la spesa raggiunge invece i 984 miliardi. Nel nuovo secolo, la crisi finanziaria del 2008 (crisi dei subprime) e quella del 2011 (crisi dei “debiti sovrani”) – di particolare impatto politico, perché pone fine al quarto governo di Berlusconi e gli chiude per sempre le porte di Palazzo Chigi – determinano una contrazione generale nell’economia particolarmente grave per l’Italia, il cui Pil scende del 1,7% nel 2008 e del 5,5% nel 2009.

Nel 2020, il primo anno pandemico, il Pil crolla del 9%, per “rimbalzare” a +6,7% del 2021, e a +3,9% nel 2022, ma le previsioni del governo Meloni per il 2023 stimano la sua crescita solo dello 0,8% (+1% nel 2024). In generale, i dati confermano quella che talvolta è definita “la legge del meno uno”:

l’Italia nell’ultimo trentennio è cresciuta in media un punto percentuale in meno all’anno rispetto agli altri paesi. Un ritardo di circa 30 punti accumulati nell’arco di una generazione ha effetti intuitivi. Bassa crescita e aumento del debito peggiorano le prospettive di vita di fasce ampie della popolazione, limitando l’uguaglianza delle opportunità e i diritti inviolabili, come quelli all’istruzione e alla salute. La Terza via, a dispetto delle promesse, risulta ostruita.

Gli investimenti pubblici in Italia 

Eppure, la spesa pubblica è in costante aumento; perché allora tassi di crescita così bassi? L’origine è in vari fattori; quello dei bassi investimenti (sia pubblici che privati) non è di poco conto. Nel 1996 la spesa per investimenti è pari al 2,2% del totale, un trend che ci colloca al di sotto di molte economie avanzate. Non solo. Per effetto del Covid, nel 2020 essi scendono, in termini nominali, ai valori del 2003 (293 miliardi, contro i circa 300 nel triennio precedente).

Pur tenendo conto della risalita del 2022, il tasso di crescita resta simile a quello del decennio precedente. Anche gli investimenti privati mostrano una curva simile: la spesa delle aziende in ricerca e sviluppo tra il 1995 e il 2007 è pari al 19,7% del Pil, mentre scende al 17,4% negli anni 2014-2019.

Nel 2022 (governo Draghi), l’Italia destina il 2,7% della spesa pubblica a investimenti, contro il 3,8% dell’area euro (la Gran Bretagna spende il 3%, gli USA il 3,3%, la Cina il 4,9%). Complessivamente, si calcola che nel decennio 2011-2020 in Italia le risorse sottratte agli investimenti siano state pari a circa 430 miliardi (di cui oltre 115 per mancati investimenti pubblici).

Le cause dell’asfissia

Uno dei maggiori debiti pubblici al mondo; tagli costanti alla pubblica amministrazione; una politica salariale volta al contenimento dei redditi; una grave inefficienza nell’amministrazione della giustizia (civile, amministrativa, tributaria); una scarsa propensione all’innovazione (che ci colloca al 28° posto su 50 nel 2022); il mantenimento di settori di mercato non contendibili; l’insufficienza delle politiche attive del lavoro; l’incapacità a invertire il calo demografico aggiunta a una generale ostilità all’integrazione della popolazione immigrata.

In sintesi, ecco alcuni fattori che aiutano a comprendere la bassa performance italiana. Per quanto riguarda gli investimenti pubblici, lo scarso controllo sulla loro efficienza non ha trovato ancora soluzioni adeguate, mentre i tagli lineari alla spesa, specie negli anni berlusconiani, hanno depresso ulteriormente gli effetti attesi.

Anche l’assetto istituzionale non aiuta. L’attuale legge elettorale non seleziona una classe politica adeguata, mentre la modifica costituzionale del 2001 (varata dal governo Berlusconi-II, ma nata nella commissione D’Alema) produce distorsioni e sovrapposizioni tra Stato e regioni, accentuando i divari tra nord e sud.

I deficit di molte regioni, ad esempio, hanno un effetto ulteriormente negativo sui conti pubblici e sulla vita delle persone; si pensi al disavanzo sanitario, che comporta il divieto di erogare nuove prestazioni finché perdura il mancato rientro. Tutto questo mentre nel 2022 l’Italia spende 2.000€ pro-capite in sanità, la Francia 3.300, la Germania 6.000.  

L’influenza europea

I primi anni Venti del nuovo secolo sono segnati da situazioni avverse: prima il Covid, poi la guerra in Ucraina; senza contare il cambiamento climatico in atto, con eventi disastrosi e frequenti, che impattano su crescita e sostenibilità del modello attuale di sviluppo.

Sullo sfondo, dopo la pandemia ritornano gli stretti vincoli europei di bilancio – approvati anche dalle forze socialdemocratiche, da sempre nelle maggioranze espresse nel Parlamento europeo –, mentre la BCE contrasta l’alta inflazione a costo di aumentare il debito pubblico sovrano. Va poi ricordato che la novella costituzionale del 2012 (governo Monti), assicurando il pareggio di bilancio e «l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea», orienta la politica economica nazionale a criteri di rigore.

Anche l’attuazione del PNRR è irto di ostacoli. La misura più incisiva di eurokeynesismo mai approvata, potenzialmente la soluzione al basso tasso di crescita che affligge l’Italia, subisce il taglio di 16 miliardi del governo Meloni, sui complessivi 191,5 assegnati, e sembra trasformarsi nell’ennesima occasione sprecata. Le prossime elezioni europee minacciano di rafforzare la destra a Strasburgo e a Bruxelles, con effetti contrari a una più equa ridistribuzione della ricchezza. L’Italia rischia di avere davanti a sé un declino segnato da anni di bassa crescita e nuovi tagli.   

E domani?

Dal 1994 il campo progressista ha governato molti anni in Italia; occorre perciò interrogarsi sulle sue responsabilità. La crisi richiede l’elaborazione di politiche che favoriscano l’innovazione, generino buona occupazione (decine di migliaia di giovani specializzati lasciano ogni anno il paese), sostengano i salari, riducano il gap di genere e territoriale, realizzino una maggiore giustizia sociale.

Le risorse europee andrebbero utilizzate a pieno. Gli ambiti sono diversi: digitale, welfare, istruzione, ricerca, trasporti, industria green. Vasto programma, potrebbe dirsi. Certamente, ma per una forza davvero progressista sembra che provarci sia un’opzione non più rinviabile.

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