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Le lunghe conseguenze delle rivoluzioni industriali


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Le rivoluzioni industriali ebbero – e hanno tutt’ora – degli impatti estesissimi, i cui effetti travalicavano i confini della fabbrica: l’innovazione tecnologica modifica i modi di produrre, la quantità della produzione delle merci, i prezzi, l’estensione delle reti di scambio, scompaginando i vecchi equilibri. A loro volta, i cambiamenti tecnologici favorirono l’esternalizzazione di alcune funzioni e operazioni che l’uomo in precedenza compiva in prima persona con il suo lavoro. Alcune professioni, investite dalle trasformazioni, si scoprirono obsolete mentre fecero la loro comparsa nuove esigenze a livello di competenze. Il quadro odierno, dove una figura altamente qualificata può venire retribuita come un profilo con minori qualifiche, presenta però una nuova problematica dalla non semplice risoluzione: visto che l’offerta eccede la domanda, è sempre più necessario intercettare nuove opportunità calibrando l’offerta formativa sui settori più innovativi e in espansione, aggiornando continuamente le conoscenze a disposizione.

Le rivoluzioni investirono con forza anche i territori in cui presero piede: questi divennero così obiettivo di nuovi flussi migratori, che stravolsero l’equilibrio centro-periferia esistente fino a poco prima, dando così vita ad un nuovo rapporto tra città e campagna e tra poli geo-economici sviluppati e realtà comunque marginali malgrado le rivoluzioni industriali. Esemplificativo, in questo senso, è il caso di Milano, città che negli ultimi anni ha guadagnato 100mila abitanti, in prevalenza giovani qualificati provenienti dal Mezzogiorno in cerca di nuove opportunità di lavoro. In tempi più recenti, i territori furono però anche oggetto del processo opposto rispetto all’industrializzazione: a partire dagli anni Settanta del Novecento, infatti, alcuni dei più significativi luoghi produttivi occidentali – da Detroit a Manchester, da Sesto San Giovanni a Bochum – furono investiti da forme violente di deindustrializzazione, le cui conseguenze si vedono oggi in termini di frammentazione e sfaldamento delle comunità territoriali, isolamento e solitudine, conflitti inter-etnici e generazionali.

 

Se quei territori oggi sono segnati dalla sparizione dei siti industriali, a cavallo tra XIX e XX secolo vennero modificati dall’apertura di numerosissime fabbriche, vere e proprie città nelle città che trasformavano lo spazio circostante, influenzandone l’organizzazione sulla base delle loro necessità e delle loro esigenze. In questi luoghi si formarono nuovi soggetti sociali legati al lavoro che sulla base di nuove identità collettive svilupparono conflitto e vertenze per conquistare diritti, migliorare le proprie condizioni di vita attraverso la capacità di organizzarsi in soggetti politici in grado di rivendicare le loro istanze nello spazio pubblico.

 

Grazie a quei soggetti sociali – partiti, sindacati, associazioni e movimenti – prese piede un vasto processo di emancipazione volto a ridefinire la cittadinanza sulla base dell’inclusione delle nuove istanze. In concomitanza con le rivoluzioni industriali, sorsero così forme aggregative sulla base di legami mutualistici, le cui rivendicazioni portarono alla ribalta la necessità di governare i processi scatenati dal progresso attraverso forme di welfare mentre l’irruzione sulla scena pubblica di nuovi strati sociali generò un processo, talvolta anche contrastato, di democratizzazione delle istituzioni. Proprio in funzione delle nuove metamorfosi avvenute nel mondo del lavoro, in Occidente risulta sempre più difficile, per la sfera politica, favorire aggregazione e dare rappresentanza a quegli innumerevoli lavori dai tratti molecolari.

Parallelamente alle trasformazioni sul piano sociale, politico e nei processi produttivi, le rivoluzioni industriali favorirono profondi cambiamenti nelle culture, nei costumi e nei consumi, per grandi masse di uomini e di donne. Grazie alla diffusione dei prodotti industriali, disponibili per pubblici sempre più ampi grazie ai minor costi di produzione, migliorarono sensibilmente la condizioni di vita anche in ambito domestico, dal quale le donne poterono finalmente distaccarsi, anche per cogliere nuove opportunità lavorative. Ma le rivoluzioni industriali mutarono anche la percezione che l’uomo aveva del tempo, così come del tempo di vita in tutte le dimensioni: dalla vita lavorativa al tempo libero, al confine stesso tra “tempo di lavoro”, “tempo di produzione” e “tempo di vita”.

Storicamente, le rivoluzioni presentarono un altro elemento in comune: il mito del progresso, che incarnava la possibilità dell’uomo di trasformare lo spazio circostante, di dominare la natura. Legati al progresso, ritenuto a lungo una condizione quasi “naturale” dell’umanità, il mito del produttivismo e dello sviluppismo caratterizzarono durante l’intera modernità culture politiche anche antagoniste tra loro. A partire dagli anni Settanta, uno spartiacque su più fronti, il meccanismo – e l’ottimismo – che spingeva verso un futuro giocoforza migliore si è andato inceppandosi: nel dibattito pubblico venne così a galla la preoccupazione relativa ad un cambiamento tecnologico che influenza radicalmente sulle vite collettive e sulla sostenibilità effettiva del modello attuale, chiamando direttamente in causa il rapporto uomo-società-tecnica-natura. Esplosa recentemente nel contesto della quarta Rivoluzione industriale, la questione climatica accende l’esigenza di immaginare un nuovo orizzonte di progresso, certamente capace di non lasciare indietro nessuno ma al tempo stesso di aprire nuove opportunità in una società più giusta, equa, inclusiva e sostenibile.

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