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Le matrici ideologiche della Destra mainstream


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La destra italiana contemporanea (Lega e Fratelli d’Italia, entrambe attualmente egemoniche su Forza Italia) è un fenomeno che non ha eguali, per dimensioni del consenso nonostante le connotazioni ideologiche, in Europa occidentale. Non per questo va però studiata come un caso deviante e peculiare del nostro Paese. Al contrario, va compresa nel quadro delle dinamiche tipiche e ricorrenti del “campo ideologico” moderno e, in particolare, delle relazioni tra destre conservatrici e liberali.

L’identità di quell’area politica che siamo abituati a chiamare centro-destra, destra moderata o, ancora, destra “mainstream”, infatti, si definisce e ridefinisce nel tempo attraverso la combinazione variabile di due matrici ideologiche profondamente diverse, che si sono formate fin dall’alba della modernità politica: la matrice conservatrice, la cui “stella polare” può essere riconosciuta nel principio dell’ordine — la preservazione di un certo ordine politico, sociale e morale (tipicamente fondato, dall’era della politica di massa, sui richiami nazionale e/o religioso); e quella liberale, che mira più di ogni altra cosa a garantire la sfera delle libertà individuali, nelle scelte private ma anche nella vita pubblica e nell’iniziativa economica, dall’ingerenza dello Stato, nonché a vigilare contro ogni possible strapotere di una componente dello Stato sulle altre.

La storia del campo ideologico occidentale degli ultimi secoli è stata continuamente attraversata da cicli di ibridazione e, al contrario, di differenziazione reciproca tra queste due matrici. Ciò si riflette a sua volta nel rafforzamento o nell’indebolimento delle istituzioni della democrazia liberale, poiché una differenza fondamentale tra queste matrici è che quella liberale si traduce, e non può non tradursi, in un impianto rappresentativo-parlamentare fondato sulla separazione dei poteri dello Stato. Al contrario, la matrice conservatrice allo stato “puro”, cioè non ibridata con la matrice liberale, può anche rigettare, a seconda del contesto storico e del tipo di ordine sociale la cui preservazione è in gioco, il principio rappresentativo e l’istituto stesso della democrazia parlamentare. Non a caso, il conservatorismo si è anche potuto combinare, nel corso della storia, con le monarchie assolute, i regimi autoritari, le democrazie illiberali (oggi note, in linguaggio giornalistico, come “democrature”).

I grandi partiti della destra europea sono sempre stati in prevalenza di matrice conservatrice, anche perché il liberalismo, un’espressione storica della borghesia urbana, è un’ideologia ancora oggi sociologicamente non certo di massa ma, piuttosto, tipica delle classi medio-alte dotate di buon “capitale culturale”. Tuttavia i partiti conservatori sono stati, si diceva, profondamente influenzati in diverse fasi storiche dalla matrice liberale, non solo per gli aspetti più “metapolitici” che hanno a che fare con l’assetto istituzionale dello Stato, ma anche per la visione (“politica”) fondamentale dell’organizzazione della vita collettiva. Questa ibridazione ideologica liberal-conservatrice tra le istanze della tradizione morale e quelle del libero mercato, già prevalente nelle destre scandinave dalla metà del XX° secolo, si è imposta in tutto il mondo occidentale nel corso degli anni ’80 e ’90, promuovendo da una parte la libera iniziativa individuale, ma dall’altra venendo meno alla funzione “organicista” di protezione della comunità nazionale, prerogativa classica della matrice conservatrice.

Passati alla storia come gli artefici di questa ibridazione ideologica, Margaret Thatcher e Ronald Reagan si sono, in realtà, limitati a interpretare un ruolo richiesto da un ciclo storico “centrifugo” nelle relazioni tra Stato, società e mercati (dopo il ciclo storicamente “centripeto” dell’espansione del Welfare State e della protezione sociale nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale). Non a caso, la stessa spinta liberale e pro-mercato ha investito le forze socialdemocratiche europee, specie dopo il 1989, e con il suo apice alla fine degli anni ’90. E anche la stessa Unione Europea, il cui progetto è fin dalle sue origini il frutto di un’ibridazione in chiave moderata fra le principali tendenze ideologiche moderne (conservatorismo, liberalismo, socialismo/progressismo), ha fortemente enfatizzato in quei decenni la “stella” liberale, come si evinceva ad esempio nel Trattato di Maastricht del 1992.

Ma non si possono comprendere le tensioni che attraversano le forze politiche delle destre europee e italiane in questi anni senza tenere conto del contro-movimento “centripeto” e anti-liberale (in campo politico, culturale ed economico) che ha iniziato a affermarsi a partire dagli anni Duemila, e con più forza dopo la grande recessione del 2008. Questo contro-movimento, cresciuto nel contesto di ingerenze delle istituzioni di Bruxelles (le politiche di austerità dell’Eurozona), di terrorismo legato all’Isis, di ondate migratorie, si è alimentato mobilitando gli strati popolari intorno alla lotta contro le “élites” europee da un parte, gli “outgroup” etnici e religiosi dall’altra. Ma ha potuto svilupparsi anche, e primariamente, in un contesto di crescita, all’interno del sistema internazionale, di grandi e medie potenze (Cina, Russia, Turchia) alternative al modello di democrazia liberale che gli Stati Uniti rappresentavano nel mondo sostanzialmente “unipolare” della fine dello scorso millennio.

All’inizio di questo ciclo (primi anni Duemila), il ritorno al discorso dell’ordine – nazionale e/o tradizionale – implicava ancora la fuoriuscita dai partiti conservatori mainstream o liberal-conservatori (fu il caso di Geert Wilders in Olanda e, prima ancora, di Nigel Farage nel Regno Unito). Ma la graduale crescita delle forze della destra radicale, che esprime essenzialmente una radicalizzazione della matrice dell’ordine in chiave populista e rappresenta il sintomo – ben più che la causa – del contro-movimento centripeto e anti-liberale di questa fase storica, ha portato anche molte forze conservatrici mainstream a riposizionarsi, ripristinando il principio dell’ordine come messaggio prioritario rispetto a quello del libero mercato.

Così fece Nicolas Sarkozy da presidente, dopo essere stato il politico più liberale della destra francese alla fine degli anni ’90; ma anche l’olandese Mark Rutte, che nel suo primo governo ottenne l’appoggio del partito di Wilders; e poi l’austriaco Sebastian Kurz, che ha formato in anni recenti una coalizione di governo con i nazional-conservatori e populisti del Partito della Libertà; o, ancora, i Conservatori di Boris Johnson, che alle ultime elezioni post-Brexit hanno recuperato nei propri ranghi la grande maggioranza degli ex-elettori dell’UKIP. Al di fuori dell’Europa, i Repubblicani sotto la presidenza Trump sono un altro caso particolarmente eclatante di riscoperta della “stella polare” originaria delle forze conservatrici.

In Italia, come sappiamo, la Democrazia Cristiana fu sostituita negli anni ’90 dal Berlusconismo che, nonostante gli intenti dichiarati dal suo fondatore di dare vita a un movimento liberale di massa, ha invece largamente innestato la ricetta “metapolitica” populista su un menù ideologico tipicamente liberal-conservatore fin de siècle.

Ma la domanda di protezione sociale emergente dal contesto storico dell’ultimo decennio è stata intercettata non certo dal Partito Democratico, anch’esso ancora intriso della matrice liberale anni ’90 ben più che da quella progressista/socialista (l’altra possible risposta “centripeta”), bensì dal messaggio conservatore nazionale radicale della Lega di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Può esistere un’alternativa conservatrice moderata in Italia? Sì, e paradossalmente può essere recitata, almeno in parte, dagli stessi Berlusconi, Salvini e Meloni. Certo, questo richiederebbe in via preliminare  futuri rimescolamenti delle loro alleanze in Europa, portandoli a posizionarsi tra il gruppo popolare (PPE) e quello conservatore (ECR), ma a smarcarsi (contrariamente a quanto fatto il 2 luglio 2021 dagli stessi Salvini e Meloni) dalle forze della destra radicale e anti-liberale nella UE (da Marine le Pen in Francia fino a Viktor Orbán in Ungheria).

Ma la vera pre-condizione è l’uscita del nostro Paese e, prima ancora, dell’intera UE, dal contesto di “crisi permanente”: specie economica, ma poi declinabile strumentalmente contro ogni presunto nemico del popolo nazionale. Finché non si sfalderà, dietro la spinta di un nuovo ciclo espansivo, il terreno sotto i piedi dell’appello populista e nazional-conservatore radicale, la tentazione dei consensi politici facili da monetizzare in tempi di gravi incertezze e rancori sociali sarà irresistibile per questi attori politici. Imprenditori iper-moderni del consenso, la loro “etica della responsabilità” – come Max Weber chiamava l’inclinazione dell’autentico uomo politico a valutare le conseguenze prevedibili del proprio agire sul futuro del paese – ha già lasciato in diverse occasioni a desiderare.

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