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La strada verso il referendum


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1974-2024: cinquant’anni dal referendum sul divorzio
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Colossali trasformazioni della società italiana

“Rivela” molte cose il referendum sul divorzio, e già prima del suo svolgersi. In primo luogo l’arretratezza delle forze politiche rispetto alle colossali trasformazioni della società italiana. E ai suoi drammi, portati allo scoperto da un’ “Italia reale” che si esprime con le moltissime lettere a Loris Fortuna o ad “ABC”. E che dal 1966 affolla le manifestazioni della Lega italiana per il divorzio.

A quella che si svolge a Roma in piazza del Popolo c’è un gran folla, annotava Miriam Mafai: “molti giovani, signore eleganti ma anche coppie col bambino in braccio e il suo bravo cartello divorzista, o il pensionato di Albenga con la compagna della sua vita” che non aveva ancora potuto sposare. Gente che sino a pochi giorni fa si vergognava della posizione “illegale” in cui viveva – annotava dal canto suo “Il Giorno”- e “adesso si sente forte”.  Un’Italia assente dalla cultura del fronte antidivorzista e poco presente anche in quella del partito comunista.

Norme giuridiche più avanzate sono “ancora inconcepibili da noi”

È esemplare il modo con cui  Togliatti stronca su “Rinascita” nel 1964 le riflessioni di un seminario interno al Pci promosso dalla commissione femminile e da quella culturale. Un seminario che aveva preso avvio dall’”innegabile ritardo” del partito (parole di Giuseppe Chiarante, che ne dà conto) per porre l’attenzione sui nodi del divorzio, dei figli illegittimi e di altro ancora. Togliatti aveva ribattuto seccamente, dopo aver doverosamente citato Marx ed Engels: norme giuridiche più avanzate, esistenti in altri paesi, sono “ancora inconcepibili da noi”.

Il diffondersi del dissenso

L’anno dopo vi è il progetto di legge sul divorzio del socialista Loris Fortuna (che aveva partecipato alla Resistenza ed era uscito dal Pci dopo l’invasione dell’Ungheria). Il dibattito si innesca subito ma è l’annuncio del referendum che illumina bene sia l’arretratezza delle “due Chiese”, cattolica e comunista, sia l’emergere di crepe e di voci dissonanti al loro interno.

Sullo sfondo un errore di valutazione almeno in parte condiviso, favorito dalla facilità con cui i comitati contro il divorzio raccolgono nel 1971 poco meno di un milione e quattrocento mila firme: dato che sembra far dimenticare il crollo dell’Azione cattolica (nel 1972 ha un quarto degli iscritti che aveva dodici anni prima), i fermenti che attraversano Acli e Cisl, e un più generale diffondersi del “dissenso” (i “cattolici per il No”, a partire da figure come Pietro Scoppola, avranno un significato morale che va molto oltre il loro peso “quantitativo”).

Famiglia unita dalla forza della legge

E non è compreso appieno quel silenzioso allontanarsi dei cattolici dalle indicazioni pratiche della Chiesa che era stato in realtà accentuato dall’enciclica Humanae vitae del 1968, con il suo divieto a ogni forma di contraccezione. Si aggiunga che nel fronte antidivorzista è presente anche quella visione pessimistica (e orribile) della famiglia italiana che fa da sfondo ai comizi di Amintore Fanfani, soprattutto nel Mezzogiorno: una famiglia che può rimanere unita solo se “costretta” dalla forza della legge.

Quel che colpisce nel PCI, invece, è l’idea che il referendum in sé sia destinato a provocare catastrofi, ed è illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Partito.

Referendum come catastrofe

Già nel 1965, alla presentazione della legge Fortuna, Berlinguer e altri prevedono  “uno scatenamento di forze religiose” che metterebbe in discussione la condotta seguita “dall’articolo 7 in poi”. E nel 1971 – quando la raccolta di firme per il referendum ha avuto successo – il vecchio Longo dice subito: “speriamo che Berlinguer trovi il trucco per bloccare questa cosa”.

Referendum come catastrofe, in più di un intervento, e la catastrofe è ancora più grossa perché, come afferma Berlinguer sin dall’avvio, uno scontro con il mondo cattolico – imporrebbe “un cambio radicale nella politica del partito”. Una politica che dopo il golpe in Cile prenderà il nome di compromesso storico ma che si delinea per intero già in quel 1971,in un clima reso cupo dalle rivolte di Reggio Calabria e L’Aquila, dall’emergere delle trame golpiste (da quelle di Junio Valerio Borghese a quelle che verranno alla luce sino al 1974), dallo stragismo fascista e dall’avanzata elettorale delle destre (il contrario di quello che era lecito attendersi dopo il 1968 studentesco e  l’autunno caldo).

“Come si può andare avanti in un paese come l’Italia senza scatenare una reazione che stronchi questa spinta?”

È in quel clima che nel 1971 Berlinguer pone con forza alla Direzione e ai segretari regionali la domanda cui dovrà rispondere il congresso dell’anno successivo: “Come si può andare avanti in un paese come l’Italia senza scatenare una reazione che stronchi questa spinta?”. E nella relazione a quel congresso espliciterà la risposta, con richiami togliattiani: “la collaborazione fra le grandi correnti popolari: comunista, socialista e cattolica”. Senza questo sfondo non capiremmo perché il Pci abbia cercato sino all’ultimo di evitare il referendum anche accettando peggioramenti della legge già approvata.

Con l’opposizione di poche voci, a partire da quella di Nilde Jotti e di altri che ci aspettiamo, come Terracini. Ma anche di chi ci aspetteremmo meno: nel 1971, ad esempio, anche Natta sbotta: “il problema del divorzio non è stato posto da quattro scalmanati ma dallo sviluppo stesso della società italiana” (il referendum non è una sciagura che ci è piombata addosso, aggiunge, e bisogna “chiarire al partito che il divorzio lo abbiamo voluto”).

“Il nostro partito è abituato a saltare”

Ancora nel luglio del 1973, quando le previsioni sull’esito del voto sono ormai ottimistiche, la relazione di Berlinguer al Comitato centrale prevede un quadro catastrofico, a prescindere dal risultato. E sin nella Direzione che si tiene l’1 e il 2 marzo del 1974 chiede altro tempo prima di dare avvio alla campagna per il no. In questo caso persino Amendola non riesce a trattenersi: “continuare a piatire cose non possibili [un accordo in extremis con la Dc per modificare la legge] demoralizza il partito. Il nostro partito è abituato a saltare, se deve saltare, ci deve essere l’invito alla mobilitazione … in questo nostro attendere il nemico ci frega”. Pochi giorni dopo la campagna del Pci per il no inizia davvero:  il partito è effettivamente “abituato a saltare” e il suo contributo al risultato finale sarà molto importante.

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