La differenza tra destra e sinistra, in poche parole
È da decenni che la comunicazione della sinistra italiana – dal Pci al Pds, dai Ds all’attuale Pd – presenta caratteristiche che sono rimaste costanti nel tempo e indipendenti dalla soggettività dei leader di turno. Due gabbie fondamentali in cui si muove: la prima linguistica, la seconda più ampiamente concettuale e valoriale.
Innanzitutto, mentre all’inizio degli anni Novanta la lingua parlata dalla destra – quella di Berlusconi, Bossi e Fini – riusciva rapidamente a smarcarsi dal cosiddetto politichese della Prima Repubblica, per avvicinarsi al modo in cui le persone parlano tutti i giorni, la sinistra ha sempre fatto più fatica a farlo. Quali sono i tratti linguistici di cui la destra si è liberata? Per quel che riguarda il lessico: uso preferenziale di parole astratte invece che concrete (cioè riferite a esperienze ordinarie); uso frequente di espressioni prolisse, di perifrasi e circonlocuzioni al posto di espressioni più brevi e dirette; preferenza per le parole colte, i tecnicismi e il gergo politico, invece di espressioni comuni e colloquiali. Per quel che riguarda la sintassi: prevalenza dei periodi lunghi (più di 35-40 parole) su quelli brevi (meno di 20 parole); preponderanza dei verbi passivi e impersonali (più indiretti) su quelli attivi (più facili da comprendere); predominio dell’ipotassi sulla paratassi, ovvero delle frasi subordinate su quelle coordinate.
La rivoluzione tentata da Cassese e Bassanini
Fra l’altro, negli anni Novanta il progressivo avvicinamento del linguaggio politico a quello ordinario si inquadrava in un cambiamento più ampio della lingua italiana. È in quegli anni, infatti, che aziende e pubbliche amministrazioni cominciarono a semplificare il loro italiano, cercando di ripulirlo dalle oscurità e pesantezze prima indicate. Questo portò a risultati importanti: dal Codice di stile per la pubblica amministrazione, introdotto dal ministro Cassese nel 1993 e ripreso da Bassanini nel 1997, alla riforma della bolletta Enel nel 1998 e della dichiarazione dei redditi nel 2000, fino alla riscrittura di interi siti web e documenti di comuni, regioni, aziende sanitarie e ministeri.
I risultati di questo lavorio trentennale sono tuttora parziali e disomogenei: alcuni settori ci sono arrivati, altri meno, e anche all’interno della stessa realtà, la capacità di scrivere e parlare per tutti si trova spesso a macchia di leopardo. In politica, poi, la differenza principale sta fra destra e sinistra: mentre la destra italiana adotta un linguaggio più semplice e “popolare”, la sinistra resta ancorata a un registro alto e spesso confuso. Il che è paradossale, visto che per principio la sinistra dovrebbe curare gli interessi di chi è economicamente, socialmente e culturalmente più debole. L’unico leader a fare eccezione è stato Matteo Renzi, che non a caso è stato spesso tacciato di essere “di destra” o “berlusconiano” (per ragioni non solo linguistiche).
Anche oggi, infine, le principali differenze di comunicazione fra Giorgia Meloni e Elly Schlein si comprendono in questi termini. Mentre Meloni, anche nelle sedi istituzionali più altolocate, organizza le frasi con una dominanza della paratassi sull’ipotassi e usa un lessico semplice, con pochi tecnicismi e molte parole riferite alle esperienze di chi ascolta, Schlein abbonda di espressioni astratte e poco agganciate alla realtà quotidiana, di frasi lunghe e subordinate, al punto che le parodie che la riguardano, dalla satira ai meme in rete, puntano proprio su questa sua tendenza.
La lezione (inascoltata) di Lakoff
La seconda gabbia colloca la sinistra italiana in un quadro internazionale che, pur facendola sentire meno sola, non è consolante. Nel libro del 2004 Don’t Think of an Elephant! il linguista e scienziato cognitivo statunitense George Lakoff spiegò che la prima regola, in politica, è costruire una propria visione del mondo, un proprio modello di valori e idee (ciò che Lakoff chiama frame), dal quale poi derivare strategie e programmi concreti. Insomma, la prima regola per uno schieramento politico è non limitarsi a negare il frame di concetti e valori degli avversari: se ordino a una persona di “non pensare all’elefante”, quella subito s’immagina un elefante, e dopo che ho attivato quest’idea nella sua mente, sarà molto difficile cancellarla. Perciò, diceva Lakoff ai democratici americani, smettetela di pensare all’elefante repubblicano, siate attivi e non reattivi, giocate all’attacco e non in difesa, costruite i vostri frame, non limitatevi a negare quelli altrui.
La lezione che Lakoff fece al Democratic Party nel 2004 fu assimilata da Barack Obama, che nel 2008 e nel 2012 vinse le presidenziali. Non altrettanto accadde in Italia: il libro di Lakoff uscì da noi nel 2006 e il Pd di Walter Veltroni perse le politiche del 2008. Per anni, inoltre, partiti e movimenti di sinistra non hanno fatto che pensare all’elefante Berlusconi, invece di costruire e rinsaldare obiettivi, valori e programmi propri: dall’antiberlusconismo ossessivo del Pd al Popolo Viola che organizzava i “No B-Day”, tutti in apparenza hanno contestato Berlusconi, in realtà confermandolo e rinforzandolo.
E oggi? Sono passati solo due anni dall’insediamento del governo Meloni, per cui è presto per pronunciarsi, ma al momento la sinistra non sembra aver superato nessuna delle due gabbie, facendo, invece, un andirivieni dall’una all’altra.
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