Articoli e inchieste

La gita in Grecia dei neofascisti italiani


Tempo di lettura: minuti
24 luglio 1974: quando la Grecia riscoprì la democrazia
Esplora il calendario

“Io in Grecia?”

I neofascisti italiani, quando venivano interrogati durante le lunghe inchieste giudiziarie sulle stragi, si tenevano sempre alla larga da quella gita in Grecia dell’aprile del 1968

“Io in Grecia? Ma quando mai! Non mi piace il mare e neanche il Partenone”, tagliavano corto. Il 30 dicembre del 1969, racconta nelle sue memorie il leader di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie, gli chiesero alla Questura di Roma se sapesse qualcosa di quella trasferta e se conoscesse i nomi e il numero dei partecipanti: “alludevano alla gita ad Atene di una cinquantina di giovani camerati, alla quale io peraltro non avevo partecipato. Naturalmente negai qualsiasi notizia in merito a quell’episodio insignificante che, in seguito, verrà gonfiato ad arte, malgrado fosse a tutti noto che si trattò di una scampagnata, tra l’altro priva di qualsiasi conforto non fosse altro che culinario”: chissà di che altri generi di confort, secondo l’avanguardista, si potesse godere nel piccolo paese del Mediterraneo dove i colonnelli avevano preso il potere l’anno prima, agli ordini di Georges Papadopoulos che avrebbe poi guidato la giunta militare per tutta la durata della brutale esperienza dittatoriale, sette interminabili anni.

I Colonnelli al potere e influenze esterne

Immediatamente arrestati il primo ministro Kanellopoulos, dirigenti politici e civili simpatizzanti della sinistra, 10.000 persone messe in stato di fermo, sciolti i partiti politici, i tribunali speciali spuntarono come funghi. I soldati avevano l’ordine di sparare a chiunque circolasse dopo le 18: del resto, le operazioni coperte, spiegò negli anni Henry Kissinger, non vanno confuse con opere missionarie. 

I colonnelli greci non avevano fatto tutto da soli, la Cia si era data tanto da fare. Il coinvolgimento degli Stati Uniti venne testimoniato anche da uno dei nostri più importanti agenti segreti, Gian Adelio Maletti, il quale disse che gli americani avevano avuto addirittura in mano le redini del golpe, avevano tirato i fila, e le spie della Cia si erano fatte in quattro per spingere e rassicurare i militari greci: non dovete temere nulla che ci siamo qui noi a proteggervi e poi, comunque, datevi una mossa perché c’è un problema importante: l’Unione democratica di centro, il partito di Georgios Papandreou, che mai avrebbe tollerato le basi militari a stelle e strisce sulla bella terra di Creta, era lì lì per vincere le elezioni. Quindi ci voleva per forza un bel coupé. Maletti sapeva molto di questa faccenda perché nel 1963 era stato nominato addetto militare all’ambasciata d’Italia in Grecia dove rimase fino al 1967: il 21 aprile di quell’anno, quando tutti i telefoni del paese vennero interrotti dai golpisti, quello della sua casa di Atene continuò a funzionare. Lui disse che era perché abitava vicino alla regina madre, la regina Federica, e che non potevano certo permettersi di sabotare sua maestà. Come che sia, sceso in strada e visti i carri armati, risalì in casa per avvisare via radio Roma dove non si sorpresero più di tanto. Era tutto nell’aria e lui stesso aveva avuto precise informazioni su quanto sarebbe avvenuto. La diplomazia si mise in moto quasi subito. Nei primi mesi del 1968, il colonnello Enzo Viola, uomo di Eugenio Henke e capo dell’Ufficio D, mandò in Grecia il tenente colonnello Giuseppe Pièche, già fidatissimo alto funzionario del regime fascista, con l’incarico di stabilire i primi contatti. Con Henke, Viola e il capo di stato maggiore Aloja siamo nel cuore della strategia della tensione: ma per farla, occorreva una manovalanza ben addestrata. La Grecia si presentava come una palestra ideale, era il sogno dei golpisti di casa nostra. Le cellule ordinoviste si preparavano alla grande spallata in Italia guardando al regime greco con invidia e ammirazione. Prima del golpe la penisola ellenica era stata sconvolta da diversi attentati, proprio come accadde anche qui nella funesta estate del ’69 quando vennero messi sotto attacco soprattutto i treni, per preparare il ‘botto’ del 12 dicembre. 

Esportare la rivoluzione greca in Italia

Il primo straniero senza divisa che andò a congratularsi con i golpisti fu Pino Rauti, il fondatore di Ordine nuovo, tra gli ospiti più entusiasti del vice primo ministro Stylianos Pattakos. Nei suoi giri di felicitazioni tra gli amici della capitale greca, Rauti incontrò un colonnello dei servizi segreti locali che fu poi molto importante nel tenere i rapporti con la fascisteria italiana: si chiamava Kostas Plevris ed era responsabile per le faccende italiane della Kyp, i servizi segreti greci. Di sicuro era in un albergo di Milano dall’8 al 10 novembre del 1969 insieme ai due connazionali, non si sa a fare cosa ma di sicuro voleva “esportare la rivoluzione greca in Italia”, disse ad Oriana Fallaci nel 1975. Maturò quasi subito l’idea di una vacanza studio per un centinaio di neofascisti che, tra un bagno di sole e l’altro, venivano addestrati a fare i destabilizzatori in un campeggio vicino Corfù, un posto dove era esibita con disinvoltura la simbologia fascista, medaglie e busti di Mussolini, roba simile.

Un porto sicuro in caso di latitanza

Della gita in Grecia parla per la prima volta un rapporto della questura di Roma del 19 gennaio 1970 al procuratore Vittorio Occorsio che indagava sulla ‘pista Rauti’ per la strage di piazza Fontana. Lì si dice che si unirono a Rauti, tra gli altri, Mario Merlino, Adriano Tilgher, Elio Massagrande, Roberto Besutti, Stefano Serpieri, Nicola Troccoli, Loris Facchinetti, leader di Europa Civiltà, e il commercialista Romano Coltellacci (Proc. Pen. Italicus bis, Atti). In tutto erano in 49 e, insieme ad altrettanti studenti greci in Italia riuniti nell’Esesi – la Lega nazionale degli Studenti Greci in Italia, quelli favorevoli ai colonnelli – andavano a festeggiare il primo anniversario del golpe. Lo scambio era intenso tra camerati dei due paesi da quel (poco) che si è potuto ricostruire: nel settembre del 1972, ad esempio, il Fronte della Gioventù organizzò un corso di aggiornamento politico a Montesilvano (Pescara) dove ci sono i camerati greci. Le informative parlavano anche della partecipazione alla allegra spedizione dell’avvocato Giulio Maceratini, peraltro sostenuta in quella intervista alla Fallaci anche da Plevris, ma Maceratini smentì con una lettera nella quale spiegava di essersi recato nella penisola greca solo due volte in tutta la sua vita: “la prima mi recai ad Atene nella primavera del 1968 con una comitiva di 50 giovani per una gita la cui natura esclusivamente turistica … La seconda volta nel settembre del 74, a Corfù in viaggio di nozze”. (Paese sera 12 maggio 1975). 

Avendo un intero Stato, ancorché piccolo, al loro fianco i neofascisti italiani sapevano di poter contare su un porto sicuro che per molti fu luogo di latitanza. Nomi eccellenti: Elio Massagrande, Clemente Graziano, Claudio Besutti, Claudio Bizzarri, l’uomo che secondo le più recenti ricostruzioni portò la borsa carica di esplosivo dentro la Banca dell’Agricoltura di Milano. Avevano ad Atene una propria sede nello storico quartiere Plaka in via Corda 3 dove c’era un ristorante italiano chiamato Verona. Il gruppo milanese de La Fenice, un prolungamento di Ordine nuovo guidato dal missino Carlo Rognoni, aveva come simbolo il mitico uccello alato, lo stesso del regime dei colonnelli. 

La Grecia dei Colonnelli: un serbatoio di identità per il neofascismo italiano

La Grecia dei Colonnelli per il mondo del neofascismo italiano fu un serbatoio di identità e di immaginifica proiezione verso una imminente svolta autoritaria. Fu anche, più concretamente, brutale e galvanizzante stimolo per le squadracce violente che commettevano attentati da Catania a Milano seminando il panico. Fenomeno troppo poco noto, sebbene documentato in numerosi rapporti di Polizia. In quegli anni il segretario missino Giorgio Almirante, oggi esaltato dalla presidenza del Consiglio italiana, aizzava gli animi: «I nostri giovani – disse nel 1972 a Firenze – devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti e voglio sottolineare che quando dico scontro frontale intendo anche scontro fisico». 

E’ cambiato tutto da allora ma bisognerà pur ammettere che il neofascismo italiano è stato trattato con troppi riguardi se ha potuto rialzare la testa e riproporsi oggi con gli stessi simboli e slogan di allora (e con scarsa fantasia). 

La Fondazione ti consiglia

Restiamo in contatto