Se l’Europa è il tappo, basterà girarlo, per riprendere a respirare, o sarà necessario toglierlo?
Quando non si hanno le parole, arrivano le immagini:
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L’Europa è un ingombro, se vuoi vivere facile, soddisfare la tua sete (di potere?) meglio liberarsi del tappo. Lo studio grafico che ha ideato la campagna social di Matteo Salvini e della Lega per le elezioni europee, ha prodotto altre creazioni che insistono sullo stesso messaggio. Il dato non è una curiosità e fa riflettere sul possibile “senso comune” che ci aspetta.
L’Europa è un ingombro, se vuoi vivere facile, soddisfare la tua sete (di potere?) meglio liberarsi del tappo. Lo studio grafico che ha ideato la campagna di Matteo Salvini e della Lega per le elezioni europee, ha prodotto altre creazioni che insistono sullo stesso messaggio. Il dato non è una curiosità e fa riflettere sul possibile “senso comune” che ci aspetta.
Comunque, riflettere su questa immagine non è né inutile né ozioso. Soprattutto non è persecutorio. Se si vuol capire il tempo in cui si vive bisogna non fermarsi al primo livello.
Due le osservazioni preliminari.
La prima: nel tempo in cui l’analfabetismo è scomparso, la capacità di andare diretti ai contenuti è ancora affidata alle immagini che, evidentemente, hanno più capacità delle parole di essere capite immediatamente.
La seconda: nel mondo della comunicazione una delle cose che forse sono sorprendenti, è che il linguaggio verbale della politica non è poi così innovativo. Anzi. Spesso è proprio un riciclo di parole già ascoltate, già dette, da molti, spesso da quelli che oggi sono avversari. È una delle conclusioni che propone Michele A. Cortellazzo, linguista italiano di fama internazionale, nel suo ultimo libro La lingua della neopolitica. Come parlano i leader (Treccani), arrivato in libreria in queste settimane.
Il vocabolario della politica
Non è l’unica, perché altre cose curiose ci propone l’autore. Diagnosi che si sostiene su alcune conclusioni, per certi aspetti imbarazzanti, considerato il fatto che la politica comunica di sé di essere un’offerta di nuovo. Ne propongo alcune perché il tema non è né banale, né futile. Anzi ci riguarda da vicino.
Il primo aspetto su cui insiste Cortellazzo è che la politica usa una quantità di parola decisamente spropositata, spesso in sovrabbondanza, ma senza per questo essere in grado di proporre un’analisi precisa. Anzi più si usano le parole, maggiore è il tasso di nebulosità. Ne discende che il linguaggio della politica non è volto a spiegare, ma ha un fine sedativo. Serve a “tranquillizzare”, ma non a rendere consapevoli un cittadino che chiede. Semplicemente questo alla fine è un bisogno non soddisfatto. Meglio: una domanda inevasa.
Secondo aspetto. Spesso il linguaggio della politica vuol comunicare innovazione, cambiamento, ma in realtà è caratterizzato da riuso: di parole, di concetti, di immagini, di metafore. Il vocabolario con cui si sono presentati agli italiani di volta in volta: Renzi (rottamazione), Letta (cacciavite), Meloni (patria); Grillo (mangiatoia), Di Maio (manina), Schlein (cacicchi), fino al “qualcuno” di Matteo Salvini, forse l’espressione più consueta del linguaggio complottista dalla notte dei tempi a oggi.
Il linguaggio politico nelle sue espressioni spesso reiterate all’infinito fino a diventare iconiche e scambiabili con la persona stessa che le pronuncia, è un continuo riciclaggio di parole e significati già usati da altri, anche di opposte sponde politiche, in un tempo diverso. Quel tanto che nel frattempo quella parola abbia avuto un momento di “disuso” per non incorrere nell’incidente che qualcuno si alzi e sveli il gioco del prestito avvenuto. E dunque non faccia sembrare “di latta” o “di cartapesta”) la spacciata “offerta di novità” che starebbe in quel linguaggio.
Cosa c’è di chiaro nella comunicazione politica?
Terzo aspetto: in una comunicazione che intende sottolineare la necessità della consapevolezza del singolo, della sua presa di coscienza, comunque della sua centralità, dove dunque al centro della comunicazione dovrebbe stare il destinatario del messaggio, chi alla fine risulta centrale è la figura di chi comunica e soprattutto di una sola voce al comando. Ovvero la centralità del leader.
Il quarto aspetto forse per certi aspetti il più sorprendentemente adeguato per misurare la distanza tra intenti dichiarati e pratiche effettivamente praticate. Riprendo le parole di Cortellazzo perché credo che sia impossibile scrivere con maggiore chiarezza e allo stesso tempo perché mi sembra non lascino dubbi.
“Il politico – scrive Cortellazzo nelle righe conclusive del suo libro – si pone come modello linguistico per l’elettorato; non più, però, come modello di un linguaggio alto, ma come un modello di un linguaggio basso. Insomma, la prospettiva può essere sintetizzata con questo slogan: «votami perché parlo peggio di te» («e impara!») [p. 244].
Restare vaghi
Un linguaggio, dunque, che non offre novità, che non è nuovo, ma che incrementa e anzi accresce il suo carattere allusivo, strizzando l’occhio, ammiccante. Che può diventare operativo proprio per la sua natura allusoria, “doppia”. Ossia un linguaggio che nello stesso momento in cui dice di parlare chiaro fa di tutto per non farlo. In questo confermando un vecchio vizio del linguaggio politico italiano: quello delle espressioni vaghe, allusive capaci di affascinare. Parole che eludono, che non impegnano, ma che alludono.
Per esempio, la parola compromesso, non è più usata (forse perché assimilata alla metafora di “inciucio”?). Al suo posto prevale “contratto”. Oppure “occupabile” un’espressione che fa di tutto nel linguaggio politico per non descrivere il soggetto di cui si vuol parlare. Proprio per rimanere nel vago.
Ecco il vago: condizione che non impegna e, contemporaneamente, consente di dire che si ha una politica. Insomma: niente di nuovo. In politica il successo si basa ancora su «l’usato sicuro». Magari detto con parole “nuove”, ma cariche di significati vecchi. Meglio: antichi.